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Intervista a Daniele Fior

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L’ascolto è un modo per poter andare sotto la superficie della vita ordinaria, una caratteristica che da adulti quasi si dimentica ma che è racchiusa nell’animo umano da sempre. La voce di Daniele Fior entra nella mente, riesce a evocare tutta la meraviglia che il romanzo di Melville racchiude in sé; lasciarsi trasportare da quella voce è un po’ come essere a bordo del Pequod insieme a Ismaele. È un po’ teatro, un po’ cinema, un po’ ricerca, l’audiolibro Moby Dick. Ce lo racconta Daniele Fior, fondatore di Locomoctavia, attore e doppiatore diplomato all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico” di Roma.



L’uomo è da sempre prima ascoltatore e poi lettore, in quanto la lettura è una pratica che si apprende negli anni. E quando subentra la capacità di leggere, spesso, l’uomo dimentica di essere anche ascoltatore. Perché è importante ascoltare storie, anche in età adulta?
Sicuramente per poter leggere è necessario saper ascoltare. Ascoltare come prima cosa il testo ed essere in qualche modo anche ascoltatori di sé stessi, nel senso meno meccanico dell’espressione. C’è un canale per cui la lettura diventa una liberazione, non c’è volontà impressa sulla tonalità, il ritmo, il colore. Quando questo avviene, ci si stupisce della possibilità di poter ascoltare mentre si è colui che racconta. Ascoltare da adulti è importantissimo. Fin dalla nascita impariamo ad ascoltare i grandi e ci affidiamo a loro. Quando i grandi siamo noi, dobbiamo ricordare di ascoltare; ascoltare anche noi stessi come diceva lo spirito di Amleto padre “ascolta, ascolta, oh ascolta!”. È un monito per noi adulti... L’ascolto permette di perdersi, confondersi, lasciare entrare le parole e la storia, come quando eravamo bambini, e uscire da sé. L’uomo non smette mai di aver sete di storie. Viviamo delle storie degli altri, delle storie dal passato e di quelle di immaginazione, con cui ci confrontiamo, confortiamo o specchiamo. È questa “necessità” che i cellulari ci appagano e anestetizzano continuamente, con notifiche di ogni tipo e microracconti in forma di notizie da scorrere per pochi secondi. L’audiolibro permette invece, come il teatro, la possibilità di un ascolto ampio e lento; e con il teatro ha in comune altre due cose che lo avvicinano al senso più arcaico del “farsi raccontare” e “ascoltare”: permette una dimensione profondamente privata e intima della fruizione della storia, dove è la propria immaginazione che fa la parte più grande del “lavoro”, ma può essere al tempo stesso vissuto in comunità con altre persone: penso ad esempio ai lunghi viaggi in auto ascoltando un audiolibro in famiglia. La necessità di ascoltare storie ci sarà sempre; un po’ la viviamo e un po’ la bruciamo. Entrare in un racconto come questo, un mondo che ci impegna per moltissime ore o pagine, a cui dobbiamo dedicare uno spazio, ha la capacità di cambiare qualcosa dentro di noi e presenta la possibilità di connetterci quella zona che sta sotto la superficie e che ci riguarda profondamente. Ecco in fin dei conti l’ascolto nell’età adulta è un modo per poter andare sotto la superficie della vita ordinaria, che ci occupa di continuo.

Perché hai scelto di cimentarti con un classico così potente e impegnativo come Moby Dick?
Un progetto audio su Moby Dick è stato per me un desiderio segreto e “impossibile” per tanti anni. Rimasi folgorato dal romanzo di Melville a 24 anni. Ricordo ancora con precisione la voragine che mi provocavano le immagini di orizzonti dispersi ai confini del mondo conosciuto; una mi colpì in particolare, nel capitolo che ha come titolo “La grande armada”: qui da un momento di caccia intensa, alcuni marinai vengono trascinati improvvisamente nel mezzo di un vasto branco di capodogli; nel cuore di questa colonia galleggiante non si ha più percezione della caccia che sta infuriando poche centinaia di metri più in la. Alcune balene stanno partorendo, altre accudiscono i balenotti appena nati: una sorta di paradiso naturale dove persino l’acqua è liscia come uno specchio, circondato da un inferno, tutto umano, di caccia. Rimasi così profondamente colpito da questo passaggio idilliaco e straziante, a cui si giungeva dopo centinaia di pagine di romanzo, e dalla possibilità che questo spazio di pace, anche narrativo, potesse prendere senso e spessore proprio per la quantità e intensità degli avvenimenti che lo precedevano. Fantasticavo nel vago desiderio di poter leggere e incidere un giorno Moby Dick, per poter giungere a questo passaggio, immerso in ore e ore di racconto. Mi sembrava un obiettivo molto impegnativo, troppo difficile. Un tempo troppo vasto da gestire. Ho inseguito questo romanzo per tanti anni, e poi si è ripresentato d’improvviso pochi mesi fa. Le registrazioni sono partite d’un colpo, e la traversata pure.

Qual è stato il personaggio più difficile da interpretare e da rendere emotivamente? E quale, invece, quello in cui ti sei un po’ ritrovato o con cui sei entrato maggiormente in empatia?
È difficile parlare di un personaggio in particolare. Quando si legge è come se la voce non appartenesse a nessun carattere di preciso ma si declinasse nei vari anfratti della storia e nelle vite e ragionamenti dei personaggi. Questo romanzo stesso vive del resto anche di paradossi narrativi; ha inizio come una sorta di diario in prima persona di Ismaele, poi si trasforma, per alcuni capitoli, in una sceneggiatura con vere e proprie didascalie di luogo e azione, per entrare successivamente nei segreti pensieri di svariati personaggi, a cui Ismaele, il nostro raccontatore, non potrebbe avere accesso. Il “corpo” Moby Dick è come se fosse un’unica voce sola: Achab una derivazione di Ismaele; gli ufficiali di bordo, ulteriori declinazioni di un’unica voce o ragionamento; i capitoli scritti a mo’ di copione, la possibilità di cambiare il tempo e ritmo, per immaginare le cose come fossero davanti a sé (“Mezzanotte. Ramponieri e marinai. Si leva la vela di trinchetto e si vede la guardia a dritta…”). Questo ha reso impossibile una pianificazione divisa in tenori diversi o inutile la decisione di come i personaggi avrebbero dovuto parlare; hanno trovato loro stessi la loro via, durante le registrazioni, mescolandosi a volte con la voce narrante. (Mi piace del resto rompere questi confini formali del testo, come se i personaggi potessero rubare spazio al narratore stesso). Detto ciò, con la tranquillità del “a posteriori”, ero assai preoccupato di che voce avrebbe avuto Achab, certo. La radice di questo personaggio così storto e appassionato, vissuto e incartapecorito restava un grande punto di domanda, per me. L’ho trovato un po’ alla volta, ed ha rivelato degli aspetti molto interessanti. Una tenerezza che non avrei mai immaginato, se lo avessi preparato a priori. A Ismaele mi sono avvicinato leggendolo e registrando il primo capitolo di tanto in tanto negli anni. L’ho trovato quando ho intravisto la possibilità di una continua ironia fra le sue parole. La malinconia del vivere da cui fugge, il suo “novembre umido e piovigginoso”, lo combatte tagliando la corda, con un viaggio in mare, non con una spada al petto come Catone. È un eroe moderno, la voce di Melville, che sorride e lascia intravedere altro; un eroe umano mai romantico. Uno dei personaggi che più mi hanno colpito ed emozionato ad ogni modo è il fabbro. La sua voce, che pare uscire da sotto un tappeto impolverato, si è insinuata nel racconto come un serpente, cogliendomi completamente di sorpresa, anche emotivamente.

La tua voce diventa la compagna di viaggio di un ascoltatore. Cosa, secondo te, è importante trasmettere per mantenere l’attenzione e per far affezionare l’ascoltatore alla storia e ai personaggi?
È importante non sovrapporsi alla storia. Quando leggiamo un romanzo nella nostra testa, non pensiamo mai a con che “voce interna” dobbiamo leggerlo. Non pensiamo a dare un colore ai vari personaggi; non pensiamo al ritmo con cui leggere una scena coinvolgente. Lo leggiamo e basta; e ritmo, colore e voci, si formano da sé in un indefinito mondo che ci creiamo nella nostra immaginazione. Per leggere ovviamente è necessario un passaggio ulteriore, quello della trasposizione, ma il processo deve mantenere queste caratteristiche, io credo. Per questo motivo non registro mai un testo preparandolo in precedenza. Leggo il romanzo per me, nella mente, e poi registro la prima lettura ad alta voce. Questo è possibile per le tante ore passate in studio ovviamente, ma di per sé permette di sorprendersi delle strade che la voce stessa intraprende organicamente senza una pianificazione volontaria. Se avessi dovuto anche solo immaginare e decidere il ritmo o il tono di Moby Dick, o come non far cadere la tensione di un racconto di una tale vastità, non sarebbe semplicemente stato possibile. Mi sono affidato ai “buoni venti in poppa” di Melville e Pavese...! Il gran lavoro, di norma, lo fanno gli autori di questi classici, la strada è già preparata, in un certo senso.

Lavori per il teatro, il cinema e ti occupi, tra le tante cose, anche di doppiaggio. Leggere un libro ad alta voce a quale, tra le tue esperienze lavorative, si avvicina di più?
Al teatro da un lato: il doppiaggio è uno spazio astratto, la voce è come su un piedistallo con un occhio di bue puntato, dove si può dare visibilità a piccoli dettagli, in cui si nasconde un particolare significato. Al cinema dall’altro, in quanto il doppiaggio è un codice particolare: non è la voce della sincerità o della quotidianità. Devi entrare nel codice che è proprio del doppiaggio, come fosse una maschera, per poter paradossalmente esprimere qualcosa di veramente sincero.

Il piano di Alessandro Scolz accompagna, a tratti, la tua voce durante la narrazione. Che importanza ha la musica in questa opera? Come sono nati i brani?
Per noi la musica ha molta importanza nella creazione dei nostri racconti. In questo caso la musica è nata da una suggestione che ha trovato un parallelo con il romanzo; i fili dei fati che trovano una composizione e una giustificazione quando il destino è compiuto. Anche qui la musica appare e scompare lungo tutto l’arco del racconto, riavvolgendosi e intrecciandosi alla voce, per poi sfociare in un’armonia completa e liberatoria solo nel finale dell’audiolibro. Ho chiesto ad Alessandro di scomporre un preludio di Bach ed entrare nei suoi meccanismi, stirandolo e sondandone le armonie per poi ricomporlo ed eseguirlo secondo spartito. È una trama delicata e toccante, estesa e rarefatta, che non abbandona mai la voce.

Ci racconti cos’è Locomoctavia?
Locomoctavia è un po’ come una grande famiglia. Parte da me e mia moglie Tanja con cui per anni abbiamo lavorato con la nostra compagnia teatrale omonima, appena usciti dall’Accademia di recitazione Silvio D’Amico di Roma, e poi si è trasformata in Locomoctavia Audiolibri in cui coinvolgiamo attori, musicisti e illustratori. Locomoctavia è un progetto che compie dieci anni proprio quest’anno. È per noi, prima che la nostra casa editrice, un’occasione per creare dei percorsi artistici, in forma di audiolibri, che hanno molto a che vedere col teatro da cui proveniamo come formazione e nostro ambiente naturale. Abbiamo cercato di portare in questi anni nel mondo dell’audio, dei progetti pensati come spettacoli ad occhi chiusi. Questo in tutte le forme che i vari audiolibri hanno poi intrapreso; dai radiodrammi a più voci, calati in ambientazioni immersive o puntellati da effetti sonori a mo’ di rumoristi del cinema, a racconti a singola voce che dialoga con i più vari strumenti musicali. Ci piace sperimentare sempre forme nuove e percorsi sconosciuti; Locomoctavia è il posto per noi in cui possiamo lasciarci la libertà di curare questi percorsi, nei tempi e modi che più ci sembrano giusti.

Grande impatto visivo ce l’ha anche l’immagine di copertina, dove la grande balena bianca scruta il lettore, nel contesto silenzioso dell’acqua. Chi si è occupato della parte grafica? Che importanza ha il punto di vista illustrativo per un libro come questo che viene ascoltato, o addirittura scaricato tramite la vostra applicazione?
Locomoctavia nasce anche dall’idea che un audiolibro, per natura così evanescente, essendo l’audio di per sé impalpabile, abbia bisogno di essere ben ancorato a qualcosa di concreto: delle immagini che siano dei quadri, e che possano colpire la memoria dell’ascoltatore. Ci piace per questo motivo continuare a stampare CD fisici perché possiamo dare un corpo alle storie nella forma di un piccolo quadretto che si va a formare quando si apre la copertina del disco. Collaboriamo da anni con Manuele Fior, mio fratello con cui abbiamo realizzato gran parte dei primi progetti, e col tempo abbiamo allargato le nostre collaborazioni ad altri illustratori e artisti visivi. Nel caso di Moby Dick, ci immaginavamo una copertina che non andasse a rimarcare la violenza della caccia, il dramma della distruzione e avventura in alto mare; ci interessava di più l’elemento di eterna saggezza del leviatano: questo essere dalla smisurata potenza e mastodontica silenziosa saggezza. Noi esseri umani sembriamo pupazzetti agitati a confronto. Moki, illustratrice e artista tedesca che vive a Berlino, ha restituito tutto ciò in maniera incredibile con un’intrigante misteriosa immagine che infonde calma e potenza.

Cosa diresti a chi sceglie di avvicinarsi per la prima volta a Moby Dick? Come lo racconteresti in poche parole?
Consiglierei di non affrontarlo con pregiudizio; non pensare che si tratti (solo) di un dramma. Questo romanzo offre dei momenti esilaranti ed è costantemente intriso di ironia e momenti brillanti. Si è scritto molto di questo romanzo, e ne si è fatte diverse interpretazioni: la balena bianca e Achab possono assumere differenti significati o farsi portatori di svariate interpretazioni. Consiglierei però di pensare a questo romanzo come un racconto di vita vissuta reale, (Melville stesso si imbarcò per anni su mercantili e baleniere) quasi un romanzo di avventura e scoperta. Spesso inoltre è nelle digressioni a margine di Ismaele, che occupano interi capitoli, quando “si perde” a dar conto di un dettaglio apparentemente insignificante come un qualche attrezzo di bordo, che appare il legame divertente e profondo di questo testo.

Dal punto di vista emozionale cosa ti ha trasmesso questo libro?
È stato un viaggio che si è costruito mentre lo stavo intraprendendo. Mi sono imbarcato insieme a Ismaele nel giorno in cui la nave prende il largo, ed ho avuto un tuffo al cuore quando il “Pequod” fa ingresso nelle acque dell’Oceano Pacifico.. è difficile da descrivere, ma quando ci si inoltra in un romanzo con una mole così vasta di parole e accadimenti, si vive quasi un’altra vita parallela. Come del resto accade quando si è rapiti da un romanzo, solo che in questo caso, come lettore, si ha una parte attiva nella storia. La mia vita nei quattro mesi di registrazioni e montaggio, ha dovuto adeguarsi a un ritmo diverso; ho, per un periodo abbastanza esteso, dovuto cambiare abitudini e routine (soprattutto: avere una routine…!). Anche questo ha avuto un influsso importante sul coinvolgimento emotivo e il legame che si sviluppa con due autori così grandi come Melville e Pavese.