
Si definisce portabandiera per l’Italia all’Olimpiade nella categoria dei chiacchieroni. Ed è davvero così. Daniele Mencarelli - poeta e scrittore romano - è un fiume in piena e la sua voglia di comunicare passa anche attraverso lo schermo del PC, durante l’incontro digitale organizzato dall’ufficio stampa della casa editrice che ha pubblicato il suo ultimo romanzo e che ringraziamo. Ascoltarlo è puro piacere; si vorrebbe che questa chiacchierata, durante la quale si parla di spiritualità, di ritorni, di incidenti, di viaggi e anche di strade di Roma, non finisse mai. Ecco cosa ha raccontato ai lettori di Mangialibri.
Hai detto una volta che la letteratura ti ha salvato la vita. Quale forma di letteratura intendi? La tua scrittura o le tue letture? E in che modo ti ha salvato?
Sono contento di questa domanda, perché la dichiarazione di cui parli mi ha perseguitato per un po’ di tempo, in quanto il rischio che si corre è proprio quello di confondere i piani. La letteratura che m’ha salvato, evidentemente, non è la mia, ma è quella che dai quattordici, quindici anni in poi mi ha fatto conoscere la lingua soprattutto di altri poeti. Le loro parole sono state per me fondamentali perché, come molte persone, provengo da una famiglia che una volta veniva etichettata come umile, ma che a me piace definire normale; una famiglia che - non per mancanza di mezzi, ma in buona fede e forse per amore - ha cominciato, quando io ero appunto un adolescente, ad equivocare il mio malessere, che è sicuramente di origine psicologica, quindi necessitante d’aiuto, ma è anche l’inquietudine di ogni essere umano che vuole vivere questa grande esperienza - che ci è stata data senza che l’avessimo richiesta - che è l’esistenza e che si pone domande. Quindi - verso i quattordici, quindici anni, appunto - trovare altri esseri umani molto interrogativi e capaci magari di trasformare una domanda in un endecasillabo è stato per me fonte di salvezza e di sostegno intellettuale e culturale. Ritengo che le letture che si fanno tra i quindici e i venti anni - io le definisco cromosomiche - diventino una parte di noi e per me sono state salvifiche come individuo e come persona che, probabilmente, non ce l’avrebbe fatta senza quei compagni di viaggio.
Al protagonista del tuo ultimo romanzo Sempre tornare tu dai il tuo nome, la tua data di nascita, il tuo vissuto, ma riesci allo stesso tempo a costruire uno di quei personaggi capaci di dare voce ad ogni lettore. Raccontaci qualcosa in più del tuo rapporto con questa prima persona, di cui racconti il viaggio in autostop dalla Romagna a Roma…
Con il terzo romanzo finisce una fase della mia produzione e lo fa non solo in termini narrativi. Con i miei tre libri - La casa degli sguardi, Tutto chiede salvezza e Sempre tornare - si è creata una sovrapposizione assoluta e pericolosa (per certi aspetti e per chi vive la letteratura in un certo modo) e io credo di non poter più scrivere libri in prima persona, perché essa rimanda a quell’io poetante che si chiama Daniele ed ha costruito questa trilogia. Proprio fino ad una decina di minuti fa stavo lavorando ad una serie di tentativi e sto prendendo le misure nei confronti dei nuovi registri che intendo utilizzare. Quel che è certo, è che non potrà più esserci un personaggio d’invenzione in prima persona scritto da me, perché dovrei rinunciare a quell’io poetante che è giustificato nei tre romanzi di cui sopra, dove il parlante è appunto un poeta. Ora, se dovessi mantenere la prima persona, per aderire ad una nuova psicologia dovrei abbandonare quell’io così lirico. Questo è il bello e il terribile della letteratura. Ogni libro è una storia a sé.
Uno degli elementi che ricorre spesso nel tuo ultimo romanzo è l’acqua, quella sulla quale, tu scrivi, “non restano cicatrici.” Puoi approfondire la simbologia che sta dietro questa scelta?
L’elemento della sete, insieme a quello della fame, progressivamente esplodono nel libro e possono avere riferimenti anche biblici. Fame, sete e vento sono elementi naturali che rimandano anche ad altro. La scommessa di questo romanzo, rispetto ai due precedenti che si sviluppano in luoghi urbanizzati (la stanza di un ospedale psichiatrico o l’interno di un ospedale pediatrico), è stata quella di introdurre altri elementi che hanno costantemente un rovescio simbolico. Tutto il libro è, secondo me, profondamente simbolico. Amo, come autore, cogliere sempre il simbolismo della realtà e ciò rimanda alla mia poetica, al mio sguardo sul mondo, sulla scrittura e sull’evidenza. Nei miei libri la ricerca spirituale è uno dei temi fondanti, ma se dovessi andare più a fondo direi che in essi c’è lo sguardo di una persona che costantemente coglie nella realtà gli elementi di retorica, come se si trattasse di un grande teatro. L’acqua non è un caso: i due ragazzi - Daniele ed Emma - si tengono per mano proprio dentro l’acqua e la corrente poi li divide. Daniele riesce in qualche modo a riguadagnare la riva. Io non so se Emma, d’altra parte, questa riva l’abbia mai più guadagnata.
Cosa rappresenta l’autostop di cui parli nel libro, oltre che la contingente ricerca di aiuto concreto - cibo, acqua, un luogo dove lavarsi e dormire - da parte di Daniele?
Ho vissuto davvero per molto tempo di autostop, una pratica che negli anni Novanta era già crepuscolare. Oggi, con l’occhio contemporaneo, è qualcosa di non più attuabile, perché è venuta meno la fiducia verso l’altro e il pensiero comune è che ogni automobilista sia uno sconosciuto a cui non va chiesto nulla. Anni fa invece, era pratica consolidata. Ora, da genitore di due figli - quindici e dieci anni - rivendico il diritto di considerare più sicuro l’autostop rispetto alle due ruote. Ho scritto parecchio sulla tematica dell’incidente e, dati alla mano, oggi la morte da incidente stradale, specie sulle due ruote, è tra le prime tre cause di decesso al di sotto dei venticinque anni, in tutto l’Occidente. Anche all’epoca di Sempre tornare per me era meno pericoloso fare l’autostop che andare sul motorino. Tornando al tema della simbologia, poi, l’autostop è per me metafora del viaggio condiviso e affiancato, è la vera arte dell’incontro.
La tua trilogia va a ritroso: si parte dalla vita di un giovane adulto e si arriva al Daniele dell’adolescenza e ciò potenzia l’idea dei vari semi che vengono gettati lungo il percorso per diventare poi adulti. Quanto conta per te, e per la costruzione dei tuoi personaggi, l’idea del destino e quanto l’idea del ritorno?
Per me ritorno e destino sono quasi sinonimi, nel senso che il destino coincide nel mio caso con una ricerca che è anche spirituale e prevede poi il ritorno a un’unità, a una casa definitiva. Nel romanzo appare un destino, partendo da un traguardo. Il Daniele del primo romanzo, grazie all’esperienza presso l’ospedale Bambin Gesù, accoglie la propria natura, che è dono e maledizione allo stesso tempo. Il secondo libro rappresenta l’esordio di un ragazzo alla condivisione della propria natura. Daniele, all’interno dell’ospedale psichiatrico, scopre che su certi temi ci si può confrontare. Andando ancora indietro, nell’ultimo romanzo, gli interlocutori di Daniele sono la bellezza, la natura, gli animali. Lui con nessuno discute dei suoi interrogativi, ma in questo ritorno al seme iniziale, quello che costruisce tutto il percorso, c’è più tragicità che in tutto il resto. La grande scommessa è stata andare a riprendere appunto il seme di tutto. Secondo me, Sempre tornare è il libro più drammatico e più fallimentare della trilogia, perché qui è piantato il seme del grande equivoco che sarà poi presente anche negli altri libri. Daniele afferma di dove capire. Questo è il fondamento della ricerca che lo porterà a vivere quel che gli è toccato in sorte come una maledizione. Cercare una risposta sul tema del significato dell’esistenza scatena una ricerca che porta a tutto ciò che gli accadrà in seguito. Il problema maggiore è che questa ricerca non si può fare con strumenti da scienziato in erba, con strumenti logici, ma, come precisa lo stesso Daniele nel romanzo, si deve credere all’incredibile. Fa parte della nostra natura fallibile il fatto di non accontentarsi di vivere e basta. Rispetto a certi temi, c’è la volontà di possederli e dominarli e in questo risiede quella che io definisco adolescenza dell’umanità. L’uomo, attraverso la sua storia, ha scontornato tanti temi, ma, rispetto a quelli relativi al significato, la volontà di ammorbidirli non c’è stata e ogni generazione riavvolge il nastro in cui sta scritto che molte cose, come l’amore, non ci vengono date come viaggiatori che possano goderne e basta, ma che in fondo ognuno di noi vorrebbe dominare e capire certi misteri, per farli propri. Il “devo capire” che sta nelle prime pagine di Sempre tornare torna nelle ultime pagine de La casa degli sguardi, dove si legge “Non serve capire”.
Se tu dovessi fare un inventario delle cose perdute, che cosa il giovane Daniele possedeva che il Daniele adulto sente di aver perso?
Non sono un nostalgico e sono convinto che la vitalità, in certi momenti anche molto disperata, del giovane Daniele sia rimasta nell’adulto che vi parla oggi. Quello che invece andrei a riprendermi dal Daniele adolescente è la fiducia, anche sconsiderata e folle, verso gli altri, quella fiducia che sa rendere anche la paura un nemico da affrontare e sconfiggere ogni volta.
Hai affermato che, in quest’ultimo libro, uno dei temi affrontati, quello del viaggio, ti spaventava. Vuoi spiegarci perché?
Noi italiani, sia in ambito letterario che cinematografico, amiamo molto meno di altri il tema del viaggio, perché il nostro paese è sì un concentrato di bellezza, storia e natura, ma a volte non ci rendiamo conto che si tratta di un granello di sabbia rispetto ad altre realtà che, non a caso, vivono pienamente la tematica del viaggio in ambito artistico e soprattutto umano. Pensiamo per esempio all’Australia, all’America, alla letteratura americana e a come si ponga nei confronti del viaggio. Quindi, raccontare di un percorso di questo tipo un po’ mi preoccupava. Mi è venuta incontro la speranza che l’Italia, certamente non paese di viaggiatori, sia tuttavia terra di pellegrini.
Qual è la scommessa che pensi di aver vinto con questa trilogia?
La grande scommessa è stata osservare i temi dell’esistenza da un punto di vista formale diverso, ossia attraverso la lente e la lingua della narrativa. Ho da sempre a cuore queste tematiche, con una forza che non ho scelto io di vivere, ma sono convinto che in realtà siano nel cuore di tutti. Un certo tipo di malessere esistenziale è sempre stato presente nell’uomo, e ritengo si tratti di una fortuna, perché è ciò che ha scatenato poi l’intero progresso umano. Oggi raccontiamo l’uomo che guarda se stesso e osserva la propria natura, finita e drammatica, e rispondiamo con tutta una serie di lingue che sono successive alle vere risposte. La scommessa su cui ho puntato è legata alla consapevolezza che tutti vivano, spesso omettendolo, un dialogo sofferto con la propria natura, dialogo che sovente, o almeno nel mio caso, ci si affaccia di notte e ci impedisce di prendere sonno.