
Nato e cresciuto in Senegal - Paese d’origine del padre - e trasferitosi da ragazzo in Francia - patria della madre -, David Diop è oggi Professore di Letteratura all’Université de Pau et des pays de l’Adour (UPPA). Per il suo romanzo d’esordio nel 2018 ha ricevuto dal Presidente francese Emmanuel Macron il premio Goncourt des lycéens e nel 2019 si è aggiudicato il Premio Strega Europeo. Lo incontro nella hall di un grande hotel a due passi dal Lingotto, in occasione del Salone del Libro di Torino. Ha un sorriso magnetico, ti fissa dritto negli occhi e risponde alle domande con un tono suadente da affabulatore.
La storia dei soldati senegalesi e africani sul fronte della Prima guerra mondiale è poco conosciuta: perché hai sentito la necessità di raccontarla?
La storia dei “tirailleurs sénégalais”, i tiratori senegalesi, è naturalmente ben conosciuta dagli storici perché esiste un’ampia documentazione a riguardo, ma non è conosciuta dalla popolazione, che ignora il ruolo e l’importanza di questi soldati. Immediatamente dopo la Prima guerra mondiale la memoria della partecipazione dei “tirailleurs sénégalais” era invece ancora viva. Quando sono tornato in Francia per fare i miei studi superiori, a metà degli anni Ottanta, a Tolosa incontrai un anziano che mi ha raccontato che suo padre era stato salvato proprio da un soldato africano che lo aveva trascinato in trincea in salvo dopo che era stato ferito e fino agli anni Ottanta le testimonianze del genere erano ancora molte. Quindi esisteva una fratellanza, una riconoscenza che si è spenta pian piano, si è affievolita a mano a mano che gli ex combattenti della Grande Guerra sono morti. Effettivamente oggi questo ricordo è quasi scomparso, tranne che negli ambienti accademici. Ma non ho scritto Fratelli d’anima per fare informazione su questa vicenda storica presso il grande pubblico, attenzione. Mi interesso alla Prima guerra mondiale da molto, perché il mio bisnonno materno, nel ramo francese della mia famiglia, è stato esposto al gas iprite ma non ha mai raccontato nulla alla sua nipotina di quanto aveva passato in trincea. In famiglia c’era una sorta di silenzio voluto da lui sull’argomento: spesso del resto gli ex soldati non parlano dell’orrore della guerra perché parlarne significherebbe farlo rivivere. E questo silenzio mi ha sempre interpellato. Non ho mai conosciuto il mio bisnonno, ma avrei voluto sapere tutto di lui e quando nel 1998 lo storico Jean-Pierre Guéno ha racconto in un volume imperdibile e toccante le lettere dal fronte dei “poilu”, i soldati francesi della Grande Guerra, mi sono detto: “Possibile che non ci siano lettere dei tirailleurs sénégalais? Potrebbero rivelare la loro intimità”. Così ho inventato un romanzo che in fondo è una lettera dal fronte scritta da un tiratore senegalese, un soldato africano che ho voluto non parlasse francese, che provenisse dalla campagna e fosse stato gettato, come tanti contadini di quei tempi, nell’inferno di una guerra industriale. In quel momento ho scelto il racconto del pensiero del personaggio, per entrare nella guerra di questo uomo, per entrare nella sua intimità e nella sua intimità con la guerra. Il mio lavoro è stato solo quello di resuscitare le sue emozioni. Forse il mio bisnonno conosceva un tiratore senegalese, chissà. Forse era scritto che la sua nipotina avrebbe sposato un senegalese.
Il protagonista del tuo Fratelli d’anima sceglie di diventare uno stereotipo, un totem. Che rapporto hanno gli africani con gli stereotipi?
È un’alienazione. La rappresentazione europea dell’Africa è alienante. Ad esempio molti intellettuali africani degli anni Trenta hanno voluto dimostrare che non erano selvaggi, che potevano vivere una vita “civile” in Francia. E questa è un’alienazione, perché è una risposta obbligata allo sguardo dell’altro e questo sguardo è condiscendente e imprigiona in un’immagine. Ho voluto disvelare questa rappresentazione creando un personaggio che non conosce questa alienazione, che la supera e arriva al punto in cui la violenza gli ispira il ruolo che gli si vuol fare avere, la sua libertà. È nell’obbedienza a una rappresentazione data che giunge fino all’estremo, lo spazio in cui si trova la sua libertà. In fin dei conti è più libero degli intellettuali, perché quasi si prende gioco della propaganda e dei pregiudizi.
La guerra è anche dentro di noi, uno stato dell’anima…
Abbiamo più legami di parentela con gli scimpanzé che con i bonobo. Preferiamo fare la guerra che fare l’amore. È qualcosa che fa parte dell’umanità, basta visitare qualsiasi museo per vedere che da tempo immemorabile l’uomo ama la guerra. Questo non è un giudizio morale: ma bisogna esserne coscienti e credo che in Fratelli d’anima venga mostrato come nel cuore della barbarie della guerra può fiorire la fraternità, che anch’essa fa parte dell’uomo. È per questo che ho costruito il romanzo attorno alla metafora del doppio, dell’ombra e della luce, della frontiera labile tra umano e disumano. La disumanità fa parte dell’umanità.
Dal tuo punto di vista, c’è un’emergenza razzismo in Europa?
Il mondo è grande e la storia è lunga. Il razzismo è sempre esistito e la storia è ciclica. Non ci sono aspetti spaventosi oggi che non esistessero già cento anni fa. Sono cose che succedono e succederanno sempre: questo non significa certo che non bisogna combatterle, solo non bisogna credere nel progresso della Storia.