
Conosco Davide Grasso dal 2017, dall’epoca del suo impegno sul campo di battaglia al fianco delle forze democratiche guidate dai curdi nel nord della Siria. Nel 2018 abbiamo collaborato provando a mettere insieme una rete solidale che ha cercato di dare una mano ai curdi di Afrin, all’epoca sotto attacco dell’esercito turco. Ci siamo risentiti per mail nei giorni scorsi per parlare anche di un altro itinerario delle sue ricerche, che conduce al muro per eccellenza, quello di Berlino, e ai nuovi muri. Un itinerario che è diventato un libro.
Berlino trent’anni dopo. Possiamo dire che la caduta è l’evento che chiude il secolo breve del Novecento Europeo. Quanto ancora rimane del valore simbolico di quella notte del 9 novembre? E da dove nasce questa tua ricerca?
La mia sensazione è che quegli eventi siano stati raccontati finora soltanto da destra, e che sia mancata una narrazione consapevole della sinistra di quei movimenti sociali immensi. Inoltre, ed è quello che il mio libro cerca di dimostrare, il mondo è cambiato da allora ad oggi, ma è possibile trovare anche elementi di continuità. Ad esempio il meccanismo del debito finanziario internazionale ha determinato l’esito della guerra fredda ma governa anche il mondo che è seguito.
Nel tuo libro analizzi attentamente tutte le fratture e le spaccature interne al blocco socialista. Movimenti sindacali, culturali, teatrali, politici. Credi sia stato per lo più un collasso interno oppure una vittoria culturale ed economica del campo occidentale vinta per logoramento dell’avversario?
Credo che più che una vittoria del liberalismo capitalista, sia stato il socialismo a perdere, perché non ha voluto guardare ai propri limiti e affrontarli. Parlo dei militanti comunisti del blocco sovietico, caratterizzati fin dagli anni Trenta, e poi drammaticamente dalla metà degli anni Sessanta, da un drastico conformismo, ma anche dei movimenti della “nuova sinistra” occidentale, che si sono limitati a prenderne le distanze senza approfondire però una drastica differenza culturale.
In generale quanto l’est ha perso a causa dell’incapacità di fronteggiare l’industria culturale occidentale? Nel tuo libro ci sono passaggi di grande interesse sul ruolo della musica ad esempio. Credi che quelle culturali siano state questioni marginali e secondarie o che abbiano giocato un ruolo sostanziale?
La vicenda che ha condotto al 1989 dimostra che la concezione materialistica dei comunisti, benché più avanzata rispetto a molte altre nello spiegare il mondo, non era adeguata. I regimi dell’est hanno sempre guardato con sufficienza al dissenso artistico, ai desideri giovanili, all’odio per la censura, persino al sentimento nazionale o religioso che montava nelle repubbliche. Dovevano invece chiedersi perché era stato possibile nasconderlo, ma non stroncarlo. Questo errore di prospettiva molto doveva al pregiudizio secondo cui soltanto i fattori economici contano in ultima analisi e, a ben vedere, anche a una concezione limitante di ciò che è “economia”: in una società del consumo anche la musica e la letteratura sono economia in senso lato, sono elementi “strutturali”. I movimenti dell’est, e non solo loro, lo hanno dimostrato.
Il muro era costruito con lo scopo di non fare uscire le persone da Berlino Est; oggi i muri sembrano essere costruiti più che altro per tenere fuori, o comunque per controllare flussi della forza lavoro in ingresso. Stesso dispositivo, obiettivi diversi. Qual è la tua riflessione in merito?
Bisogna ricordare che prima del muro di Berlino tutti i grandi muri della storia avevano avuto un significato militare, erano fortificazioni. La cortina di ferro è stato il primo grande muro costruito contro le persone, contro i flussi migratori e i profughi. In questo il muro tedesco è stato il primo dei “nuovi muri”, esplosi poi nell’epoca successiva alla sua caduta. Nel libro mostro come tanto allora quanto oggi la volontà di selezionare i flussi migratori preveda una forma di complicità, magari inconfessata sul piano pubblico, tra stati di partenza e stati di arrivo. Kennedy disse di comprendere perfettamente la decisione di Kruscev del 1961, e di fatto non vi si oppose. Oggi sarebbe impensabile l’azione anti-migranti dell’Europa senza accordi con la Libia, con il Niger, con la Turchia.
In Europa ci hanno abituato a celebrare la caduta del muro come un trionfo della libertà. Eppure oggi noi proteggiamo i nostri privilegi proprio grazie ai muri di Ceuta, al filo spinato sul confine ungherese, ai blocchi di cemento su quello turco-siriano che deve tenere lontana da noi l’immane tragedia umanitaria della Siria. Non ti sembra un atteggiamento ipocrita?
Da un lato, la sinistra più critica verso il capitalismo deve i fare i conti con la realtà: la caduta del muro di Berlino e dei regimi socialisti dell’est è stato una grande vittoria dei popoli, anche se quei popoli non hanno poi trovato tutta la libertà che cercavano. Ciononostante, va detto che hanno trovato tante cose che prima non avevano, come una politica istituzionale più plurale. La retorica liberale di questi trent’anni ha però oscurato la ricchezza e la complessità di quei movimenti e di quei desideri, senza soffermarsi abbastanza su ciò che il liberalismo oggi non è in grado di dare ai popoli; e celebra questo anniversario come se oggi la libertà di viaggio fosse garantita, quando i numeri delle vittime del muro di Berlino impallidiscono di fronte a quelli dei morti nel Mediterraneo o nel deserto dell’Arizona.
Sebbene la caduta del muro sembrasse aver spezzato via definitivamente la struttura dei due blocchi contrapposti, oggi trent’anni dopo sembra che quel tipo di lettura della realtà stia tornando in auge. Ti sembra un paradigma ancora utile? Lo è mai stato?
Ho cercato di mettere in evidenza quanto la forza dell’aspirazione nazionale che ha distrutto il socialismo reale fosse frutto, più che del nazionalismo fascista sconfitto nel 1945, del nazionalismo emerso dalla decolonizzazione, dalla volontà di autodeterminazione delle diverse nazionalità. Un desiderio che nell’Ottocento aveva accompagnato la nascita del socialismo. Già allora il mondo era più che bipolare, il Terzo mondo è stato il vero protagonista del secondo Novecento. L’illusione ottica che può farci credere a un riemergere del bipolarismo è più che altro data dal fatto che l’unipolarismo statunitense emerso nel 1991 è andato presto in crisi. Vediamo emergere una pluralità di blocchi di interesse capitalistico nel mondo. Il problema è che manca un’alternativa politica a questo modo predatorio di concepire l’umanità e il pianeta. In questo la terra è davvero orfana dei movimenti rivoluzionari novecenteschi, anche comunisti.
Conosciamo il tuo lavoro e il tuo impegno per la causa dei curdi e dei popoli riuniti nella Federazione Democratica della Siria Settentrionale, comunemente nota come Rojava. Anche lì c’è un muro di quasi novecento chilometri che separa quell’esperienza politica dalla Turchia e a ben vedere anche dall’Europa in qualche modo…
Sì, oggi c’è una rivoluzione democratica e socialista, in senso nuovo e rinnovato, nella Siria del nord, che possiede una forte coscienza del significato universale del 1989. Forse non è un caso che sia stata “murata” ed attaccata dalla Turchia con la complicità di Russia e Stati Uniti, e con armi europee, dal 2018 ad oggi. Dopotutto, hanno ragione i curdi ad affermare che il fallimento del socialismo reale rende necessario pensare un nuovo modo di rivoluzionare la società, mentre non rende certo meno nocivo il sistema capitalistico, che sta facendo sprofondare il mondo nelle guerre e nell’oscurantismo.