
È l’ultima giornata dell’edizione 2018 di Più Libri Più Liberi. Prima di recarci in fiera la nostra agenda prevede un’esperienza che si preannuncia decisamente interessante. Incontriamo infatti il giovane scrittore cileno Diego Zúñiga in uno scenario piacevolmente diverso dal solito, durante una colazione informale assieme ad altri “addetti ai lavori” nel cuore del quartiere EUR, a pochi passi dalla Nuvola dove l’autore è atteso per la presentazione del suo libro. In un clima disteso e confortevole, tra un caffè (mmm, diciamo diversi caffè) e un cornetto (mmm, diciamo diversi cornetti), si chiacchiera a ruota libera, si ride, si discute assieme di scrittura. Ma si parla anche e soprattutto di storia cilena, di memoria, di responsabilità. Di seguito, alcuni dei moltissimi spunti emersi da questa singolare, imperdibile “chiacchierata corale”.
Un padre e un figlio in viaggio nel deserto di Atacama: il deserto in Camanchaca è protagonista e pregno di elementi simbolici, fortemente associato alla possibilità di “perdersi” – penso per esempio all’empapado Riquelme, alla “visione” dell’uomo nel deserto. Ti è capitato di affrontare un viaggio simile, hai preso ispirazione da un’occasione reale?
L’ho fatto molte volte in realtà, è un viaggio incredibile, bellissimo. Molto bello ma anche molto tenebroso in qualche modo. E curiosamente in Cile non si è scritto molto sul deserto. C’è qualche poema e qualche romanzo che però già non legge nessuno. Quando ho letto Rulfo, Bolaño, quello era anche il mio deserto. Il Cile è un paese molto centralizzato, tutto succede a Santiago. E quindi gli scrittori non escono da Santiago, non guardano fuori, non guardano il paesaggio esterno a Santiago. Negli ultimi anni qualcosa è cambiato, il panorama è diventato più ampio. Ma non conoscono il deserto e soprattutto il deserto non è qualcosa che entra nella loro quotidianità. Io sono nato a Iquique, che è una città molto strana perché sembrava dovesse sparire. C’è il mare, c’è la città e c’è questa montagna enorme. E un giorno il mare si mangerà la città. Crescere in una città che sai che un giorno sparirà ti rende molto cosciente del paesaggio che ti circonda. Mi sono reso conto con il tempo che quando scrivo ho bisogno di collocare i personaggi in un luogo ben definito, perché credo che il paesaggio possa determinare la persona. Quando vivi buona parte dell’infanzia in un posto, in qualche modo quest’ultimo ti marca. La provincia cilena è molto diversa dalla capitale. Non solo come paesaggio, è differente il modo in cui si cresce e si impara ad interagire con le altre persone. In provincia sei più libero, è più semplice, mentre a Santiago è tutto più difficile, teso.
Parliamo dei tuoi processi di scrittura. In che modo passa Diego Zuñiga quelle che ha definito le sue “ore-culo”?
I processi di scrittura iniziano quando ancora non si scrive, anni prima. Ad esempio, sono cinque anni che sto pensando al nuovo romanzo, ma le ore-culo per ora in realtà sono solamente dieci minuti-culo! Per me un romanzo rappresenta soprattutto la possibilità di trasmettere un’esperienza. Ci sono libri che leggi e dici: questa cosa è successa, forse non direttamente all’autore, ma comunque è successa. E quando sei giovane ancora non ti sono successe tante cose, quindi i processi sono molto più lenti, perché è più difficile trasmettere un’esperienza che non ti appartiene. E siccome i miei processi di scrittura sono lunghi, quando io mi siedo devo avere tutto in testa come se mi fosse successo. Ci vuole tanto tempo. Nel caso di questo libro, è l’unico che più ha a che vedere con quella che è la mia biografia. Però quando mi siedo e scrivo mi sento molto bene, mi piace, non capisco questi scrittori che soffrono. Perché già soffro nella vita, non ho capito perché devo soffrire scrivendo. È una delle cose che mi piace di più, il processo di scrittura.
Su tutta la vicenda di Camanchaca grava il “fantasma” di un processo ben più ampio, politico e culturale, non ancora conclusosi. Non emerge però in modo esplicito, ma come una memoria suggerita, un’atmosfera, come un taciuto sottinteso…
I miei ricordi sono differenti da quelli della generazione precedente, io non sono cresciuto nella dittatura. Sono cresciuto nel periodo della transizione dove ancora erano vive le conseguenze della dittatura. Credo che la memoria abbia a che vedere con il futuro e in questa memoria c’è la risposta a molti dei conflitti che stiamo vivendo e che vivremo. Le radici dei conflitti sono in questi ricordi della transizione. La mia generazione non ha il peso biografico, l’esperienza diretta della dittatura, per questo siamo obbligati a scrivere libri molto più rischiosi su questo tema. Non posso dare una testimonianza diretta, però proprio per questo credo che noi dobbiamo utilizzare uno sguardo differente nell’affrontare questo tema. Libri come quelli di Bolaño sulla dittatura sono un punto di riferimento importante, un’opera maestra. Perché là c’è anche il prendere un rischio formale per raccontare queste cose, il che va oltre il voler semplicemente trasmettere una testimonianza.
Camanchaca è un romanzo frammentario, fatto di silenzi e “istantanee”. Perché questa scelta stilistica?
Quando ho scritto questo romanzo ero molto ossessionato dall’idea di una letteratura contenuta, che suggerisse, più che altro. E soprattutto credevo in un lettore molto intelligente, molto più intelligente di quanto mi sentissi io. Penso che questa cosa derivi dal mio gusto di lettore, soprattutto come lettore di poesia. Dalla capacità che ha la poesia di condensare tanto in pochi versi. E quindi forse è per questo che è venuta fuori una forma-romanzo così frammentaria. Il mio desiderio era che il lettore potesse guardare, leggere il frammento come se stesse guardando una foto o un’immagine, con attenzione, e quindi essere in grado di decifrarlo. Ero molto ossessionato dalla tradizione americana, dalla teoria dell’iceberg: raccontare tanto mostrando poco. Poi mi è passata.
Idee o progetti futuri che puoi rivelarci?
Sto scrivendo un nuovo romanzo, si tratta di un romanzo di costruzione del personaggio abbastanza classico, il cui protagonista è realmente esistito e nel 1971 è stato campione di caccia sottomarina. Succede che nel 1976 sta facendo i suoi allenamenti, sta nuotando e vede i corpi della dittatura. Tutto questo è successo realmente. Mi sono detto che fossi tornato a trattare di quegli anni, sarei dovuto davvero affondare nell’epoca.