Salta al contenuto principale

Intervista a Edgar L. Doctorow

Articolo di

Il newyorchese di origine russa Edgard Laurence Doctorow, classe 1931, è sicuramente uno fra più importanti scrittori statunitensi contemporanei. Tra i suoi molti titoli di successo anche romanzi trasposti sul grande schermo da registi del calibro di Milos Forman e Robert Benton. Il suo passaggio nella Capitale per il Festival delle Letterature 2007 è stata l’occasione perfetta per rivolgergli qualche domanda. Alle nostre curiosità Doctorow ha risposto con grande disponibilità e gentilezza.




Ci puoi raccontare la tua esperienza nell’editoria e quella come insegnante?
Scrivo perché è meglio che finire dentro qualche bar e cacciarmi nei guai. Quindi si può dire che insegno per stare fuori dai guai. D’altronde in quanto scrittore non avrei molte altre alternative. Parecchi giovani fra gli aspiranti scrittori non hanno letto granché nella loro vita: questo è uno dei tratti caratteristici della cultura odierna. Perciò ho deciso che avrei insegnato loro a leggere, infatti tengo un corso di scrittura per scrittori presso la facoltà di letteratura inglese della New York University. Riguardo la mia esperienza editoriale: ritengo sia stata molto formativa per la mia creatività, oltre ad essere stato un modo valido per finanziare la mia attività di scrittore. Dedicando una parte del mio tempo al lavoro redazionale ed editoriale ne ho recuperato altro da dedicare alla scrittura. Ho esordito in questo campo come lettore: fui assunto da una casa di produzione cinematografica per leggere libri in vista di una loro possibile trasposizione sul grande schermo. In quel periodo leggevo anche un libro al giorno e poi scrivevo una sinossi affinché i produttori potessero valutare la possibilità di una trasposizione cinematografica. Questo lavoro si è rivelato proficuo e sopra ogni altra cosa mi ha insegnato quanti cattivi libri venissero pubblicati: è stato molto istruttivo. Ma per me, e per il mio modo di pensare, tutto, in ogni caso, è secondario rispetto all’attività della scrittura.

Pensi che un romanzo possa influenzare in qualche modo il pensiero e il comportamento degli individui di un’intera nazione?
La domanda è molto seria e quindi è difficilissimo dare una risposta. Certo viene da pensare che l’accumulo di tutta la produzione letteraria di una nazione abbia qualche effetto sulla sensibilità dei suoi cittadini. Se una parte dei libri che vengono scritti appassisce, decade e scompare, qualcun altro sicuramente emerge e ci rimane stampato nella mente: sono i libri che contribuiscono a creare l’identità che ci attribuiamo, in cui ci riconosciamo. Vi sono poi alcuni libri che determinano effettivamente un impatto di ordine politico: un esempio paradigmatico è quello di Comma 22, il romanzo dello scrittore americano Joseph Heller. Quel libro si riferiva alla Seconda Guerra Mondiale: una guerra, bisogna notarlo, che attingeva le sue motivazioni da una certa fierezza morale e perciò pienamente giustificata dal punto di vista dell’occidente democratico. Ma Heller in Comma 22 ne traccia un ritratto comico, ai limiti del farsesco, in particolare quando descrive l’irrazionalità della guerra e di certi comportamenti e atteggiamenti dei militari americani. Per questo, quando il suo libro è stato pubblicato, Heller è stato duramente criticato ma vi fu chi scorse in lui una sorta di profeta della guerra del Vietnam. Il suo libro perciò è diventato un mezzo attraverso il quale nei giovani americani è cresciuta e si è rafforzata una coscienza critica riguardo la guerra del Vietnam. Credo si possa proprio dire che il grande movimento contro la guerra sia nato anche grazie a quel libro.

Ci puoi parlare del testo inedito presentato al Festival della Letterature 2007?
Il testo è tratto da un saggio che si prefigge di spiegare come funziona la mente di un romanziere, che cosa succede effettivamente nel momento della creatività e in che modo gli scrittori occidentali, a partire dall’Illuminismo, differiscano dagli autori dei testi sacri di tutte le religioni che conosciamo. Tutto questo per esporre una teoria che, chissà, forse potrebbe risultare utile. L’ho intitolato The little bang, ovvero Il piccolo bang. Come sappiamo gli scienziati definiscono il momento originario dell’universo con il nome di big bang e perciò ho voluto creare un parallelo tra le due cose chiamando l’inizio dell’ispirazione poetica il piccolo bang.

Quale scintilla fa scoppiare questo piccolo bang?
Credo che basti dare un’occhiata alle considerazioni che hanno fatto diversi scrittori su questo punto per vedere quanto sia difficile differenziare le immagini che, nel tempo, ogni autore ha dato di quella sensazione di dissociazione profonda che si prova nel momento in cui si scrive. In altre parole, a mio modo di vedere lo scrittore scopre ciò che è sulla pagina ancora prima di sapere che cosa sia. E quando termina il suo lavoro di scrittura si sente esattamente come qualcuno che ha scritto sotto dettatura, una dettatura tacita e silenziosa, da parte di una voce che non si sa dove sia. Questa sensazione di essere un medium non è comune soltanto agli scrittori e ai poeti ma, a mio modo di vedere, anche agli scienziati. Albert Einstein, dopo aver scritto i suoi lavori scientifici che hanno cambiato il mondo, disse che non sentiva di esserne lui l’autore: pensava che li avesse scritti l’intera comunità scientifica del suo tempo. Questo senso di separazione e dissociazione da ciò che eseguiamo è quindi comune sia agli artisti che agli scienziati. In tempi antichi gli scrittori e gli autori che vivevano questo stesso sentimento di dissociazione non potevano che attribuire a Dio questo piccolo bang di cui parlo, quindi non attribuivano a se stessi i pensieri: credo che qui risieda fondamentalmente la differenza tra gli scrittori di allora e quelli di adesso.

Supervisioni le traduzioni dei tuoi libri che vengono fatte all’estero?
Io non effettuo una vera e propria supervisione delle traduzioni. Ovviamente invito i traduttori a rivolgersi direttamente a me per qualsiasi chiarimento ma, prima ancora, chiedo sempre all’editore straniero il diritto di approvare o meno la traduzione che si sta facendo di un mio testo. Da questo punto di vista invidio un po’ Gunther Grass che, essendo un uomo sempre molto organizzato, invita addirittura i suoi traduttori a fargli visita durante un weekend in modo da poter parlare e rivedere insieme il testo tradotto. Io non potrei avere mai un tale livello di organizzazione.

Rispetto ad uno scrittore italiano, che ha sicuramente un’audience limitata in quanto i suoi testi, pur avendo la possibilità di essere tradotti all’estero, verrano inevitabilmente fruiti attraverso il filtro della traduzione, pensi che un autore di lingua inglese possa in qualche modo ritenersi gratificato sapendo che un elevato numero di lettori potrà apprezzare i suoi lavori nella lingua originaria in cui sono stati pensati e scritti?
Il fatto che io scriva in lingua inglese è puramente accidentale: se i miei nonni non fossero fuggiti dalla Russia e non fossero emigrati negli Stati Uniti attorno alla fine del XIX secolo anch’io probabilmente scriverei in russo. Non c’è mai per uno scrittore una sensazione di trionfo riguardo il numero dei suoi lettori potenziali: tutti gli scrittori sono gelosi gli uni degli altri. In conclusione qualsiasi cosa accada ad uno scrittore va sempre male perché se la sua opera non riceve alcun riconoscimento, va male; se lo scrittore non ci fa sopra i soldi, va ancora male. Peraltro se l’opera riceve eccessivi riconoscimenti, va male e se lo scrittore ci fa sopra troppi soldi va male anche in questo caso. Insomma, qualsiasi cosa faccia lo scrittore gli va sempre male e in queste condizioni non può mai essere soddisfatto di ciò che succede ai suoi libri. Perciò lo scrittore si può sentire davvero gratificato solo nel momento in cui scrive: quando hai finito di scrivere un tuo libro, qualsiasi cosa gli succeda ormai non ti riguarda più.

I LIBRI DI EDGAR L. DOCTOROW