
Si definisce “rotolacampo selvatico, anima di fiume e ombra di bosco, devota al CouchSurfing e alla Tenda”; ha visitato ad oggi 58 Paesi ed ha vissuto in Italia, Portogallo, Russia e Georgia; ha fondato nel 2015 il blog “Pain de Route” ed è tra le altre cose vicepresidente dell’associazione di Viaggio da sola perché e coautrice del podcast divulgativo Cemento. Abbiamo il piacere di chiacchierare via mail con la giovanissima Eleonora Sacco in occasione dell’uscita del suo primo libro. Parliamo di viaggi “selvatici”, di luoghi e culture straordinarie, ma anche di letteratura, Storia, emozioni.
Te l’avranno già fatta in moltissimi questa domanda, ma ci sembra doveroso iniziare da qui. Come è nata la tua passione per il viaggiare “selvatico”? E il tuo interesse in particolare per i Paesi dell’Est?
Il viaggiare selvatico è nato insieme alla curiosità per l’Est. Nei primissimi viaggi da diciottenne, in Grecia e poi nei Balcani, sentivo una necessità impellente di testare il mio fisico e scoprire più a fondo culture che mi erano state precluse fino ad allora. In tredici anni di scuola italiana, non mi era stato fatto un cenno alle guerre dei Balcani o del Caucaso, alle culture incredibilmente ricche e variegate di quei luoghi, nessuno mi aveva detto che Samarcanda si trova in Uzbekistan. Non appena tutte queste informazioni mi si sono dischiuse, ho sentito un senso di attrazione fortissimo. L’ignoto è avventura, l’Est è avventura e scoperta continua, dormire in tenda e fare autostop lo è. Viaggiando ho scoperto una serie infinita di emozioni e sensazioni mai provate prima che hanno integrato tutto quello che avevo imparato sui libri. In particolare, è stato folgorante il primo autostop, con un armatore albanese di nome Cristo, e la prima (fallimentare) notte in una mezza tenda, chiusa su due lati da asciugamani che le mollette non reggevano affatto. L’aver provato paure così forti da così giovane mi ha letteralmente temprata, educata a leggere la realtà in modo diverso e più fisico, più esperienziale ed empatico. A ridurre ogni evento teorico a come lo vivono le persone, a come cambia la loro vita, nel bene e nel male. L’interesse per l’Est è scaturito quando ho visto uno spettacolo di Stefano Massini su Anna Politkovskaja e sulla Cecenia. Sono cose che da quel momento ho studiato con voracità, cercando immagini, video, libri, articoli, reportage: sono finita a farci la tesina di maturità. Il tema invece ero riuscita a collegarlo alla guerra dei Balcani, partendo da una traccia di Claudio Magris. Da lì, è stato impossibile tornare indietro.
Il viaggio più ”selvatico” che hai fatto e quello che non hai fatto ma che vorresti fare a tutti i costi…
Il primo viaggio in Caucaso, senza dubbio! Ventun giorni di autostop, tenda, ospitalità e condivisione assolute. Abbiamo anche rischiato grosso, perché eravamo terribilmente inesperti, ma ci sentivamo addosso l’invincibilità dell’incoscienza. Abbiamo viaggiato in Georgia, nella repubblica non riconosciuta di Abcasia e in Armenia, patendo caldo e freddo estremi, ritrovandoci per due ore in autostop con un fucile puntato addosso, dormendo in tenda sotto i fulmini in alta montagna, ma anche conoscendo persone di un’umanità e una profondità incredibili, molte delle quali sono amiche e amici preziosi ancora oggi. Anzi, soprattutto oggi che la situazione è, ahimè, tornata tragica in alcune aree. In quel viaggio, oltre alla selvaticheria (anche troppa – a tratti ci siamo trovati senza cibo per due giorni interi, sperduti nel nulla), abbiamo toccato con mano l’europeità altra, ma che non vale meno della nostra. Culture come quella armena e georgiana non si incastrano in nessuna definizione precostituita, sono a sé stanti, ma è impossibile non vedere dei legami fortissimi, antichi e recenti, anche con l’Europa occidentale. Questo aspetto è stato illuminante, come illuminanti sono stati gli incontri che abbiamo fatto: da Nana, la madre della nostra amica georgiana, che salutandoci ci ha dato una dozzina di uova sode per assicurarsi che mangiassimo anche senza di lei, al team di ingegneri indiani in missione in Armenia che ci ha invitati a dormire nella stanza di un collega che era in India a sposarsi, dopo averci salvati con un autostop provvidenziale. Quel viaggio è stata una vera scuola e, magari con meno rischi sciocchi, auguro a ogni ragazza e ragazzo di viverne almeno uno così, nella sua vita. Un viaggio che vorrei fare a tutti i costi, ma per cui serve un’esperienza di survivalism che non ho, è esplorare a fondo l’estremo est russo, dalla Čukotka alla Kamčatka, fino alle isole Curili. Sono luoghi estremi, dove l’uomo è un timido ospite e la natura è potentissima, ma anche molto pericolosa. Come minimo, fuori dalle città, bisogna girare armati e saper gestire l’incontro con gli orsi. È consigliabile farlo con una guida, anche perché le strade spesso sono tracciati appena accennati e serve una certa capacità di guida. Il luogo più simile a queste zone in cui sono stata è l’isola di Sachalin, che mi ha elettrizzata. Sono tutte zone molto costose, in termini turistici. Ma per ora rimane un desiderio vago, che spero di portare a termine quando questa situazione finirà.
Racconti da tempo dei tuoi viaggi e delle tue esperienze sul tuo blog “Pain de Route”. Quando è arrivata la voglia – o la necessità – di scriverne in un libro? Come è nato, insomma, questo tuo Piccolo alfabeto per viaggiatori selvatici?
Un libro è organico, è un qualcosa di completo, che ha un inizio e una fine e rimane un oggetto radicalmente diverso da un blog. Non solo per il tono di voce e per la scrittura in generale, ma proprio anche per quanto sia definitivo e non più modificabile o alterabile. Su blog e social c’è un gran caos e le persone si perdono – più spesso di quanto non ci sembri – i pezzi di cosa stai facendo, dove sei stata, di cosa hai scritto. Un po’ c’era l’esigenza di concentrare il percorso formativo di questi anni in un prodotto editoriale curato, un po’ quella di provare a intersecare un pubblico diverso e portare loro un piccolo manifesto della selvaticheria – un qualcosa che non c’era ancora in Italia. L’idea, per la verità, l’avevo avuta a diciott’anni, in quel viaggio in tenda e autostop in Grecia. Ogni parola che mi sembrava di capire in un senso nuovo, più profondo, diventava il titolo di un foglio vuoto su Google Drive. Era un modo per catalogare le esperienze e rianalizzarle a distanza di anni, in maniera più distaccata ma anche assoluta. Legate alle mie esperienze, ma utili anche per altre persone. Molte parole negli anni sono cambiate, ma l’idea del percorso di formazione come un abc è rimasta. Da questa volontà è nato il mio Piccolo alfabeto per viaggiatori selvatici.
Alcune delle voci del libro sono poesie. C’è una ragione particolare? Qual è il tuo rapporto con la poesia?
Prima di specializzarmi in Linguistica, ero molto appassionata di letteratura e subito dopo il liceo mi sono iscritta alla facoltà di Lettere senza troppe esitazioni. Ho letto e studiato moltissima poesia, ma l’ho sempre sentita come un mondo non mio, troppo al di là anche delle mie capacità di scrittura e di comprensione. Negli anni, poi, alcuni concetti e situazioni sono emersi solamente in poesia, che rimane una forma di espressione distillata, intensissima. Anziché trasporli in prosa, ho deciso di lasciarli così, perché mi sembrava che conferissero ulteriore libertà e alleggerissero anche visivamente il libro nel suo complesso. Mescolare prosa e poesia è una scelta particolare, ma che riflette il mio sentirmi senza schemi e indipendente. Indubbiamente ad alcuni le poesie non piaceranno, ma per me sono importanti come segnale di spontaneità quasi popolare, e testimonianza della forza improvvisa di certe emozioni, che ti spingono a condensarle in poesie. È anche una forma letteraria non più molto frequente da incontrare fuori dalle cerchie di appassionati: magari, trovandosi delle poesie a sorpresa in un libro di racconti, anche qualche non avvezzo si incuriosirà.
All’inizio del bellissimo capitolo dedicato all’isola di Sachalin citi l’omonimo libro di Čechov. Ci sono state altre “assurde coincidenze”, letterarie e non, che hanno alimentato la tua curiosità e gettato il “seme” per un nuovo viaggio?
Certo, a cominciare da Donna non rieducabile di Stefano Massini: è uno spettacolo teatrale dedicato a Anna Politkovskaja e al suo impegno giornalistico e civile nel documentare le guerre cecene. Non sono ancora stata in Cecenia, ma ci sono andata molto vicino in Georgia. Nella valle di Pankisi vive la minoranza kist, un sottogruppo dei ceceni, a pochi chilometri di distanza in linea d’aria dalla Cecenia, oltre lo spartiacque del Caucaso maggiore. La valle ha risentito fortemente della guerra, sia in termini economici e di accoglienza profughi, sia in termini di stigma sociale. Partivo, da giovanissima, con un’attrazione forte invece per la Grecia, sviluppata grazie agli studi classici, ma anche alle musiche di Eleni Karaindrou e ai film di Theo Angelopoulos. Sui Balcani anni fa mi regalarono una guida culturale prima di andare a Sarajevo edita da “Il Dragomanno” e scritta da Silvia Maraone e Anna Scavuzzo, che oggi è vicesindaco di Milano. È una guida di grande valore, che ha inciso moltissimo sulla mia prima visita in città e sul come l’avevo interpretata: da quel giorno, l’ho sempre consigliata a tutti, come un punto di partenza sintetico e imprescindibile. La letteratura (di viaggio, ma non solo) in realtà ha più messo i semi per tornare e approfondire i luoghi dopo esserci stata, come ricerca continua, analisi e integrazione del vissuto: adoro Ajtmatov per quanto riguarda la cultura rurale dell’Asia Centrale, Kapuściński, Carrère quando scrive di Russia, Aleksievič e ovviamente Rumiz, per l’est più vicino.
Hai scelto di includere e sviluppare nel tuo Alfabeto la voce Quarantena – che apparentemente suona come l’antitesi del viaggio. Come pensi che cambierà il nostro modo di viaggiare e vivere il mondo dopo l’esperienza della pandemia?
Anche la quarantena è stata un viaggio: non in grande, ma in piccolissimo. Un viaggio difficile, sconfortante, in cui ci siamo sentiti disorientati, abbandonati, vuoti. Il viaggio selvatico mi ha insegnato ad adattarmi e ad accogliere ogni evento, buono o cattivo, rielaborandolo perché diventi adatto a noi. Dove c’è abbondanza di tempo e novità di contesto c’è un viaggio: a volte la novità di contesto non è il luogo, ma la situazione che stiamo vivendo. Per me è stata un’occasione durissima, ma utile, di introspezione e rielaborazione del passato. Ne avrei fatto volentieri a meno ma, dovendo trovare un lato positivo, è stata una bella lezione di crescita e gestione delle emozioni. È per questo che ha alcuni canali estremamente vicini al viaggio. Penso che in generale, a prescindere da quanto dureranno gli strascichi del virus nei prossimi mesi, si viaggerà di meno, più vicino e con più attenzione alla qualità, e questo credo che sia un fattore positivo: sia per l’impatto ambientale, sia per la consapevolezza dei viaggiatori. Molte persone stanno imparando ad apprezzare la natura, le montagne, i luoghi incontaminati, perché la quarantena ha esasperato il loro bisogno di spazi aperti, libertà, aria, solitudine. Credo ci saranno meno fughe di un weekend nelle grandi capitali affollate, in favore di viaggi leggermente più lunghi in mezzo alla natura, magari con attività sportive annesse. Finché il virus sarà in circolazione, però, non credo si andrà lontano, specialmente per l’enorme incognita della gestione della malattia all’estero e della copertura delle assicurazioni in caso di pandemia. Il che, al momento, è un dramma per le agenzie e per tutte le persone (tra cui mi ritrovo) che vivevano di turismo, di viaggi all’estero e tour organizzati. Credo che quest’anno lascerà un segno profondo in tutti e cambierà le nostre abitudini in viaggio: confido in un miglioramento nella qualità del turismo, ma, per la nostra sopravvivenza psicologica ed economica, spero torni tutto il prima possibile alla normalità. Quella vera.