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Intervista a Elisabetta Sala

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È un caldo pomeriggio di piena estate quando raggiungo al telefono Elisabetta Sala. Storica, saggista e scrittrice, nel 2021 è tornata in libreria con il suo nuovo romanzo, una storia di guerra, di amore ma anche di dolore e speranza ambientata durante la quarta fase della Guerra dei Trent’Anni.




Vorrei iniziare con la classica domanda: cosa ti ha spinto verso la forma-romanzo?
Allora, è un percorso personale e lavorativo molto interessante, nel quale tutto è collegato. Quando studi storia, o la letteratura di un periodo specifico, ti rendi conto che i personaggi oggetti del tuo studio iniziano a essere “vivi”; il problema, almeno per quanto mi riguarda, è che si tratta per lo più di personalità famose, già note ai più. Ecco, mentre studiavo questi personaggi ho iniziato a intravedere ombre dietro di loro, personaggi secondari che magari hanno avuto ruoli determinanti ma di cui, magari per amor di brevità, non sentiamo mai parlare. Solitamente, i libri di storia ci raccontano gli eventi dal solo punto di vista che sia stato preservato: quello dei vincitori. Mentre studiavo per scrivere i saggi, mi sono interessata della parte dei vinti; da qui ai personaggi minori che non vengono nemmeno menzionati il passo è breve. Per esempio, il mio primo romanzo L’esecuzione della giustizia parte da un episodio ben conosciuto della storia inglese ma ancora “oscuro”, la cui vicenda ancora non è stata ancora ricostruita totalmente - la congiura delle polveri - e mi piaceva l’idea di narrare quell’episodio da una prospettiva che ancora non era stata vagliata. Ecco, mi sembrava giusto ricostruire la storia di chi non ha avuto voce. E poi, da lettrice accanita quale sono, scrivere storie è stato sempre un sogno nel cassetto.

Nell’introduzione del tuo saggio L’ira del re è morte parli del ruolo della memoria e di come questa influisca sulla scrittura della Storia. Ritieni che sia possibile recuperare in qualche modo questo “non detto”?
Andrebbe fatta una premessa, ovvero che quanto più uno studioso si addentra e si avvicina a un dato avvenimento storico, tanto più questo assume una dimensione completamente diversa da quella di partenza. Inoltre, la Storia, così come la Scienza, è una materia con può essere cristallizzata ma va continuamente riscritta: a ogni nuovo studio su un argomento, a ogni nuova lettura di fonti e di saggi, a ogni cambio di prospettiva, emergono elementi nuovi che possono contribuire a cambiare il quadro generale e mostrarci come l’idea che ci eravamo fatti all’inizio fosse sbagliata, o incompleta. È questo ad affascinarmi del mio lavoro. Se guardiamo la Storia da questa prospettiva, ci rendiamo conto di come non sia assolutamente morta ma, anzi, è qualcosa di sempre più vivo.

Tu hai parlato di personaggi secondari, di come sia giusto dare anche a loro una storia… Quindi quelli che incontriamo ne Il cardo e la spada sono completamente frutto della fantasia?
I protagonisti sono tutti inventati, a esclusione naturalmente dei personaggi storici inseriti nella narrazione; unico personaggio secondario reale è padre Spee. La scelta di adottate un punto di vista non convenzionale per narrare un evento storico quale la Guerra dei Trent’anni è dovuta anche alla volontà di scardinare il pregiudizio comune che vede le generazioni passate meno intelligenti rispetto a quelle successive, in una specie di evoluzionismo storico che del tutto arbitrario. A volte è vero l’opposto: basti pensare che nel passato si viveva con molti meno strumenti di quelli che abbiamo a disposizione oggi e da cui noi oggi dipendiamo; senza i quali non ci sarebbe possibile fare praticamente niente. Gli uomini del passato sono riusciti a realizzare opere non solo meravigliose, ma anche di una complessità che ci lascia stupiti. È questo uno degli obiettivi dei miei libri, quello di dimostrare come la natura umana non cambi di molto, come la gente del passato non fosse poi così diversa da noi.

Ne “Il cardo e la spada”, una delle cose che colpisce il lettore, è la mancanza di un happy ending inteso come risoluzione di tutti i nodi della trama. È stata una scelta consapevole? E se sì, non pensi che questa scelta possa essere considerata azzardata?
Si, è stata una scelta voluta. Ne abbiamo discusso anche con gli editori, ma è una decisione che ho preso in maniera consapevole. Diciamo che talvolta sono le opere a scegliersi il pubblico; ci sono opere più facili o più simili a una fiaba – che per altro mi piacciono molto – ma non era quello che stavo cercando. Un romanzo storico deve essere credibile. La Guerra dei Trent’anni è stata una tragedia immane ed è impossibile pensare di poter salvare tutti i personaggi, anche se il lettore magari lo avrebbe desiderato. A teatro la tragedia non è tale perché “finisce male”, ma perché si identifica con un preciso genere, con determinati canoni, perché vaglia temi profondi; è quello che ho voluto fare nel libro. Il cardo e la spada, però, non è pura tragedia e nemmeno solo storia d’amore, ma anche una storia di speranza. Sono emozioni profonde, che non possono essere liquidate con semplicità e per questo neanche il libro poteva ponderare delle scelte di comodo. Diciamo che il fine non è lieto nel senso convenzionale del termine ma lo è in modo più vasto. Anche la scelta della quarta fase della Guerra dei Trent’anni – la fase svedese - come teatro delle vicende è stata una scelta ponderata: non soltanto perché in quel periodo sono accaduti gli eventi più salienti del conflitto, ma anche perché il quel periodo si è raggiunto il culmine della crudezza che una guerra può raggiungere.

Un altro elemento ricorrente nei tuoi libri è il ruolo della religione, un vessillo sotto il quale – all’epoca – si poteva nascondere la propria smania di potere. Pensi che oggi la situazione sia diversa?
È una domanda molto complessa, alla quale cercherò di dare una risposta semplice. La religione, essendo qualcosa che fa appello alla nostra parte più intima, è anche qualcosa su cui spesso si fa leva per muovere gli animi e, a volte, anche per ottenere risultati che con la religione c’entrano poco. Per esempio, le cosiddette guerre di religione europee, che si concludono proprio con la Guerra dei Trent’anni, nascono per obiettivi politici ed economici, per quanto intersecati con motivazioni religiose. Politica e religione sono sempre inestricabilmente legate: non è vero che la fede debba riguardare solo la sfera spirituale e non toccare la vita quotidiana, la politica, l'economia, la visione del mondo. È vero l'esatto contrario. Confinare la fede alla sfera esclusivamente spirituale è quello che ha fatto, per esempio, il governo risorgimentale italiano quando ha sequestrato tutti i beni dei monasteri in quanto erano beni terreni. La beffa aggiunta al danno, ovviamente. Ogni nostro atto più profondo è dunque insieme un atto politico e un atto religioso (anche l'ateismo, in questo senso, è una religione). È alla concezione che abbiamo del ruolo dell'uomo nell'universo che dobbiamo tutte le nostre decisioni.

I LIBRI DI ELISABETTA SALA