
Incontriamo Faboluous MacGregor, che ha da poco esordito con il romanzo A me piace sognare, in un momento di pausa dal suo lavoro di affermato oftalmologo. Ci accoglie un “italian” (nonostante lo pseudonimo) entusiasta, allegro, generoso e di animo nobile, in un certo senso prototipo di una generazione – a cavallo tra i tumultuosi anni Settanta e i consumistici Novanta – che ci fa pensare a un’alternativa buonista (ma altrettanto efficace) al cinismo dei vari De Sica, Ghini e degli altri tipi a la Vanzina o Neri Parenti.
Perché riprendere un diario scritto in un’età distante dalla tua di ora? Lo hai fatto perché affetto dalla sindrome del fanciullino pascoliano – quella disposizione infantile a sorprendersi, per riuscire a magnificare il quotidiano –?
È qualcosa di molto meno erudito. Più che sindrome pascoliana la definirei semplicemente una variante anomala della sindrome di Peter Pan, una consapevole ma non ossessiva voglia di rimanere giovane. Accetto tranquillamente i miei 40 (e oltre) anni: quello che mi pesa è l’inarrestabile trascorrere del tempo. Il continuo rapporto con il passato – che rivivo nei miei ricordi – si rivela, così, un aiuto per affrontare meglio il presente e per programmare il futuro: una forzata dilatazione temporale che mi tranquillizza e con cui convivo più sereno.
L’eccesso di particolari narrativi e descrittivi può essere interpretato anche come un modo di esprimere la personalità o lo stato d’animo del protagonista, il suo volersi sempre lanciare in mille direzioni, attratto da tutto ciò che scopre?
Nel libro si riflette indubbiamente la mia personalità e con essa il mio irrefrenabile desiderio di nuove esperienze. Però questo stile ridondante, iperdescrittivo fino all’eccesso, è stato più che altro un tentativo di rappresentare l’irrealtà onirica, dove la produzione della nostra fantasia si concentra su una molteplicità di dettagli nel vano tentativo di rendere reale ciò che invece è solo sogno. È vero che quanto narrato nel libro sono episodi di vita vissuti, ma la finzione letteraria che ho costruito intorno al piccolo nocciolo di verità, allontana la mia storia dalla realtà dei fatti, avvicinandola appunto a una fantasia onirica.
A me piace sognare segna il tuo esordio da scrittore, eppure ti sei cimentato con prosa e versi insieme. Una scelta ambiziosa, puoi spiegarcela?
Cercavo un modo per rappresentare i sogni e quei versi rappresentano la mia fantasia sognante che si alterna alla realtà rappresentata, a sua volta, dalla prosa. Nel passato mi dilettavo a ricostruire, in qualcosa che resta comunque ben lontana dall’arte poetica, le sensazioni più intime del mio vivere giovanile. Pur nella consapevolezza della loro mediocrità – e comunque un paio di poesie non sono neanche male – le ho riproposte nel libro perché completavano il mio percorso onirico: i sogni di un ragazzo che stava vivendo un sogno.
Senti che in qualche modo sei stato influenzato da alcuni scrittori in particolare, o piuttosto sono stati dei modelli letterari – penso al road novel, o al Bildungsroman – a influenzare, inconsciamente o meno, la struttura del tuo libro?
Sicuramente sono stato influenzato da più di un genere letterario, ma da nessuno in particolare. Mi piacerebbe considerarlo un romanzo di formazione, ma non vorrei esagerare dando al mio libro significati che non possiede. Senza dubbio il road novel può avermi parzialmente ispirato, libri sul genere de Lo Zen e l’arte della manutenzione della motociclettta di Pirsig; forse c’è anche un po’ di ironia anglosassone alla Wodehouse o alla Hornby: o meglio avrei tanto voluto che ci fosse. Il mio libro cult rimane comunque Tre uomini barca di Jerome, di cui però, mi dispiace ammetterlo, c’è ben poca traccia. Alla fine, temo che, a clamorosa confessione dei miei modesti fondamenti letterari, sia Il giornalino di Giamburrasca il libro a cui più mi sono avvicinato.
Quanto la passione per la cultura britannica (evidente già dal tuo pseudonimo) si è rivelata una spinta propulsiva per scrivere il libro?
È stata la vera spinta propulsiva. Trasferirmi a vivere in Inghilterra o in Scozia è tuttora una mia fantasia non realizzata, e non è detto che prima o poi... Se mi chiedi perché è così, saprei darti una sola risposta: predisposizione genetica. Fin da bambino se mi piaceva qualcosa, questa aveva un’origine anglosassone. La mia macchinina preferita, quella con cui giocavo sempre, era l’Aston Martin di James Bond. Da adolescente i gruppi musicali prediletti erano inglesi, dai Pink Floyd ai Dire Straits, passando per i Genesis. Più in là, la mia giacca preferita era un tweed, le scarpe erano le Clark’s, l’impermeabile il Burberry. Potrei continuare a lungo. Ti confido solo che quando giocavo a calcio, nei prati vicino casa, facevo il portiere: non ero Zoff o Albertosi, ero Gordon Banks. E non ti dico quanti pomeriggi ho passato davanti la tv a vedere le partite di calcio inglesi, erano i tempi di “Football please” una trasmissione cult per quelli della mia generazione. Parliamo di quasi trent’anni fa.
Cosa rappresentava il viaggio di studio in Inghilterra per i giovani degli anni Ottanta?
Per molti era la prima esperienza lontani da casa, l’occasione per “diventare grandi”. Era una porta che si apriva sul mondo, che mostrava una realtà diversa dai bucatini all’amatriciana, dalla pizza con gli amici, dal ciambellone della nonna. Per qualcuno è stata la prima esperienze amorosa, per altri un doloroso trauma che ha sancito l’eterno odio per la Perfida Albione. Ma penso che chiunque abbia vissuto un’esperienza simile intorno ai 18-20 anni, la ricordi, nel bene o nel male, come un passaggio fondamentale tra adolescenza e vita adulta.
Potresti affermare che allora c’era una sorta di sudditanza psicologica nei confronti della cultura anglosassone?
Non allora. Parlerei piuttosto di una lenta e meditata scoperta di qualcosa che istintivamente, forse geneticamente, mi apparteneva. Adesso, forse, sì: ma è una conseguenza della mediocrità culturale in cui l’italiano è stato da tempo condannato a vivere dalla sua classe dirigente e dall’ingombrante presenza di un sistema televisivo indegno per un paese civile.
Com’è nata la legge del cinque e mezzo – tra le pagine “cult” del libro–. Puoi spiegarci in sintesi come funziona e perché il protagonista la applica?
Effettivamente è stata ripresa da un film con Alvaro Vitali, quindi non particolarmente raffinato come estrazione culturale. I protagonisti si divertivano a fare un “Totofemmina” ovvero ad applicare una gerarchia numerica alla bellezza femminile. L’abitudine di attribuire voti è diventata internazionale, non dimentichiamoci del film 10 con l’esordio di Bo Derek, a quel tempo considerata il massimo della bellezza femminile, un 10 appunto. La legge del “cinque e mezzo” è nata una era, durante una di quelle cene tra amici, caratterizzate dalla scarsa aulicità degli argomenti di conversazione, riunioni che non brillavano neanche per la raffinatezza del linguaggio usato e per la profondità dei concetti espressi: semplicemente si sostenevano le più disparate tesi sull’accettabilità o meno di esperienze sessuali con ragazze di vario grado estetico. La legge del “cinque e mezzo” e la sua alternativa “Teoria della bruttina” sono la sinopsi di quanto elaborato in quella riunione di “cervelli”. È stato un modo goliardico per sottolineare quanto può essere banale la mente dell’uomo medio(cre) e a quale basso livello morale e culturale si può scendere quando le riunioni conviviali vengono frequentate esclusivamente da elementi di sesso maschile.
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