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Intervista a Federico Moccia

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Scrittore, sceneggiatore, regista e autore televisivo classe 1963, Federico Moccia nasce in quel di Roma, in una famiglia dove il cinema regna già sovrano. Ci prova nel 1992 Moccia a diventare scrittore con il suo ormai iconico Tre metri sopra il cielo, ma deve attendere ben quattordici anni prima che il suo romanzo abbia successo. Un’esplosione di consensi arrivata improvvisamente dal tam-tam dei lettori, che lo accompagnerà anche nelle sue successive pubblicazioni, sino ad arrivare all’ultimo suo lavoro, a cui lo scrittore romano ha voluto dare un tocco di originalità per dire grazie a chi da sempre lo sostiene. A spiegarci come e perché è lo stesso Federico Moccia, che abbiamo intervistato per voi.




Il tuo La ragazza di Roma Nord è un romanzo collettivo che coinvolge i lettori. È un sogno che si avvera, oppure un’illuminazione improvvisa messa subito in pratica?
La ragazza di Roma Nord è un sogno che si manifesta attraverso l’idea. Ogni volta che incontro i miei lettori, conosco gente che mi dice di aver scritto un romanzo o di avere delle storie da pubblicare. Spesso mi portano i loro scritti, o me li inviano contattandomi su Facebook o su Instagram. L’idea di creare un romanzo collettivo mi è piaciuta da subito: io devo molto ai miei lettori e questo è stato un modo per riuscire a ricambiare quello che loro hanno fatto per me. Tre metri sopra il cielo ha avuto successo nel 2004, grazie a un pubblico che lo ha imposto sul mercato facendone le fotocopie. Ho pensato, quindi, di far diventare questi otto autori una sorta di ribaltamento dell’idea di Pirandello: otto autori che diventano personaggi. Tutti loro, infatti, entrano nel libro e vanno dal nostro protagonista a raccontare e a leggere qualcosa frutto della loro fantasia. Trovo sia bello poter avere all’interno di un libro sensazioni ed emozioni donate da scritture diverse tra loro in tutto e per tutto. Effettivamente differiscono tanto le penne di queste persone: Rebecca Puliti, per esempio, ha diciotto anni e il suo è un romanzo brevissimo, ma intenso. Ci sono poi dei racconti che hanno una forma più classica e delle poesie profonde e immediate come quelle di Michela Zanarella. Questo progetto mi ha dato la possibilità di poter raccontare di persone reali, attraverso la loro stessa scrittura e i loro stessi racconti.

Il tuo progetto ha avuto un’adesione altissima, sono arrivati tanti racconti, si narra di cifre impressionanti. Quali criteri hai adottato per poterne selezionare otto?
Sono arrivati più di milleduecento racconti. A me le cose devono colpire, così come le persone, di cui non mi importa l’eleganza o la bellezza, ma quello che mi trasmettono. Mi piace chi possiede una caratteristica che lo contraddistingue e questa mia convinzione o questo mio principio come dir si voglia, è stata la chiave della mia selezione: cercare in ogni racconto un elemento che mi colpisse. Non è stato fornito un tema da seguire o un argomento da trattare: quindi nessuna narrazione inviata poteva essere in tal senso più o meno meritevole di essere pubblicata. Ho voluto scegliere quelle che mi hanno emozionato, quelle in cui ho avvertito le vive sensazioni elevate all’ennesima potenza. Ho quindi deciso di premiare l’emozione: il criterio di selezione adottato è comunque frutto di un confronto con la casa editrice SEM. Tra tutti i racconti arrivati, sono stati scelti quelli di sei donne tra i 18 e i 62 anni e di due uomini, di 36 e 50 anni, che a mio avviso raccontano qualcosa, perché ritengo che spesso ultimamente si scriva senza raccontare.

Nel tuo La ragazza di Roma Nord tratti due argomenti molto delicati: giovani e social. Argomentazioni interessanti ma molto controverse. Come sei riuscito a dare un equilibrio sano alla trama, narrando del mondo giovanile con tutte le problematiche che esso comporta e del mondo social con il suo risvolto della medaglia spesso triste e pericoloso?
Sì è vero, il mondo social entra prepotentemente nel mio romanzo attraverso le figure che lo animano. Benedetta, l’amica di Alice, è totalmente dipendente dai social, tanto che ad un certo punto Alice le lancia una sfida: staccarsi dal telefono per il periodo della piccola vacanza che trascorreranno insieme. Poi troviamo Simone, il protagonista maschile, un ragazzo pacato che finisce per diventare influencer, una persona famosissima sui social, quando improvvisamente decide di cercare la ragazza di Roma Nord, una sconosciuta, standosene tutti i giorni in stazione con uno striscione. Quello che di negativo c’è nei social, onestamente, oggi stupisce anche me: trovo che tale mondo virtuale, quasi in maniera ossessiva e compulsiva, giri su se stesso. La stessa identica notizia viene macerata, ripetuta, riproposta, lavorata, girata e rigirata, anche se in chiave leggermente diversa, giorno dopo giorno sino allo sfinimento. Mi preoccupa la dipendenza eccessiva da tutto questo, una soggezione che vedo manifestarsi nei ristoranti, alle fermate del bus e anche tra la gente che cammina sui marciapiedi. Anche a me fa piacere sfogliare le pagine social, perché le vedo come una potenziale rete informativa di curiosità, di gossip, di cose che possono far sorridere o che possono comunque sorprendere. Quando però sono in compagnia di un conoscente, di un amico o di un gruppo, il telefonino lo metto da parte. Si ha la sensazione che per alcuni il cellulare sia una realtà parallela e non si sa come mai a volte lo si trova più interessante della compagnia degli altri. Sembra quasi esistere una preoccupazione o una certezza che dal telefonino possa arrivare qualcosa di meglio. In penso che si siano un po’ persi gli antichi valori. La confusione dei social mi ricorda quella dei mercati di un tempo. Quando si andava al mercato tanto tempo fa, si ascoltavano pettegolezzi, riassunti più o meno conformi alla realtà di quanto accaduto il giorno prima e io personalmente in questi frangenti trovavo divertimento. Mi suscitava simpatia sentir parlare questa gente piuttosto colorata, con accenti diversi, con espressioni diverse, ma i pettegolezzi e le dicerie – seppur bonarie – si fermavano lì in quella cerchia ristretta e limitata. Oggi, invece, il mercato sembra infinito, perché sui social parlano in continuazione tutti e tutti sembrano sapere tutto, questa è l’altra cosa incredibile. Mi chiedo come sia possibile che tutti sappiano tutto? Io ritengo di non sapere tante cose e non mi sogno certamente di parlare a vanvera se non conosco e non so dare risposte alle domande che mi vengono rivolte. In virtù di questo, ho voluto ironizzare sul mondo social e descriverlo attraverso i miei protagonisti, ponendo particolare attenzione a quelli che ne dipendono e quelli che se ne allontanano.

La critica afferma che tu abbia voluto sfatare l’idea dei social come contenitori di solitudine. È così?
A volte si scrivono o si dicono cose che hanno poi un effetto totalmente imprevedibile. Io ho narrato la storia dei lucchetti, per esempio, perché pensavo che sarebbe stato bello non vedere più tutte quelle scritte sui ponti legate alla frase “io e te tre metri sopra il cielo”. L’effetto sortito, invece, è stato l’intensificarsi delle manifestazioni d’amore attraverso gli stessi lucchetti, che si trovano ovunque, cosa che mai avrei immaginato. Spesso quello che si scrive con un determinato intento prende delle pieghe inaspettate rispetto a quello che è il messaggio originario che l’autore vorrebbe inviare. Quando si scrive non si può tener conto dell’interpretazione che può essere data alle parole o delle mode che possono subentrare. Io penso che i social facciano parte della nostra vita e che sarebbe assurdo rinnegarli o non riconoscerli. Per pochissimi sono diventati grandissima fonte di guadagno, per altri invece costituiscono un riempitivo di solitudine. Esiste anche la via di mezzo: quella di chi ne fa un uso equilibrato, di chi li utilizza con leggerezza, per staccare la spina da una giornata particolarmente noiosa. Io non vedo i social come qualcosa di dannato e pericoloso: come accade per tutte le cose, dipende sempre dall’uso che se ne fa.

Facciamo un passo indietro nel tempo e torniamo al 1992, quando scrivi Tre metri sopra il cielo. Quanto c’è ancora di quel Federico Moccia oggi?
Io credo che oggi più che mai, all’interno de La ragazza di Roma Nord, ci sia proprio quel Federico Moccia, perché Simone non è altro che il migliore amico di Moccia, come lo era Stefano Mancini, Step all’interno di Tre metri sopra il cielo. Entrambi i personaggi sono due amici che potrebbero far parte dello stesso gruppo, pur appartenendo a momenti temporali diversi. Sono entrambi caratterizzati dalla stessa ironia, dallo stesso piacere di vivere, dall’amore che hanno nei confronti della bellezza della vita. Per me scrittore è fondamentale che alla base ci sia sempre lo spirito ironico che permetta a Step, a Simone e a Federico Moccia di vivere l’essenza della vita pienamente. L’esistenza va vissuta necessariamente con ironia, perché ci sono cose talmente dolorose, talmente assurde, talmente ingiustificate, talmente ingiuste, per cui è necessario ironizzare per non esserne sopraffatto. Nell’ironia va trovata la forza per rispondere alle avversità della vita. Io quando ho scritto Tre metri sopra il cielo ero sicuro che sarebbe stato più che apprezzato. Invece mi sono piovute addosso una serie di critiche e un ampio numero di No, ai quali non ho risposto con remissività ma con disappunto. Io ci ho sempre creduto nel mio romanzo, io mi sarei innamorato follemente della storia di Tre metri sopra il cielo, perché è la storia che da sempre avrei voluto leggere. Così mi sono imposto di trovare una piccola casa editrice e di stamparlo a spese mie. Il Ventaglio, una piccola casa editrice appunto, mi ha accolto e così ho visto il mio libro pubblicato. Questo è stato il mio modo di rispondere a chi non ha voluto darmi alcuna fiducia. Ritengo che sia importante ribattere ai rifiuti in maniera costruttiva, gestendo la rabbia e il fastidio che inevitabilmente procurano e trasformarli in qualcosa di positivo. Il mio romanzo ha avuto successo dopo dodici anni, ma in realtà io ero già soddisfatto e felice per aver pubblicato un libro, indipendentemente dal numero di lettori che avrebbe avuto. Ricordo ancora quella ragazza in spiaggia, sdraiata sul lettino che leggeva sorridendo Tre metri sopra il cielo. Per me è stata un’emozione bellissima: quella giovane era la mia prima sconosciuta lettrice, inconsapevole di leggere il libro scritto dal suo vicino d’ombrellone.

Un percorso irto di ostacoli la tua prima pubblicazione: davvero non hai mai pensato di mollare?
No, non ho mai pensato di mollare. Quando il mio libraio mi ha chiesto altre copie del romanzo, che nel 2004 è divenuto il più richiesto, io sono tornato alla casa editrice Il Ventaglio, inconsapevole del fatto che avesse chiuso i battenti. Così mi sono rivolto alla Feltrinelli, che ha venduto più di 1.850.000 copie, un successo incredibile per un esordiente che scriveva di giovani in un periodo in cui non si dava ai ragazzi molta fiducia in merito alla lettura. Ricordo ancora quando Alberto Rollo, il mio curatore del testo, felice per il successo del romanzo, mi chiese di scrivere il seguito. Mi è rimasta impressa la sua espressione di stupore quando gli dissi che avevo scritto il seguito da un pezzo, ma che non avevo provato a pubblicarlo perché non avevo più soldi. Così è nato Ho voglia di te, il cui titolo originario era Un cielo al tramonto.

Quando ti hanno proposto la trasposizione cinematografica del romanzo, qual è stato il tuo primo pensiero?
Le case editrici, come ho detto, non ci avevano certo visto lungo con il mio romanzo, per cui quando ho saputo che ne sarebbe stato tratto il film ne sono stato felice, perché sarebbe stato pubblicato nuovamente anche il libro. Mi sarebbe piaciuto essere il regista, ma non mi è stato affidato quel compito e ho dovuto accettare la realtà. Comunque, ho pensato che sarebbe stato un modo diverso di raccontare la stessa storia, che sarebbe stato un altro a narrare le stesse vicende e siccome è una bella storia sono felice che venga descritta. Quando ho visto il film, mi sono reso conto che è stata riprodotta una storia molto diversa da quella che anima il libro, ma non importa. Mi piace pensare che esista il libro Tre metri sopra il cielo e il film Tre metri sopra il cielo.

A proposito di cinema e serie TV, ci puoi dare qualche anticipazione su Summertime, la serie TV Netflix tratta proprio da Tre metri sopra il cielo?
Di Summertime ho letto qualche sceneggiatura e mi è piaciuta molto. Credo che siano riprodotte perfettamente alcune delle atmosfere di Tre metri sopra il cielo. Non ho ancora visto la serie ultimata, ma succederà a breve. Devo ammettere di essere molto curioso di visionare il lavoro finito. Credo che la scelta del cast sia ottimale e sono sicuro che la Netflix abbia fatto un ottimo lavoro per raccontare la storia, perché ribadisco che la cosa più bella è raccontare qualcosa di valido.

Come si conviene a Mangialibri, ti chiedo, qual è il tuo autore preferito a parte Federico Moccia?
L’autore che mi ha fatto innamorare della scrittura è stato Jack London con il libro Martin Eden. Mi ha colpito molto la storia di quel giovane marinaio che per amore, decide di imparare a leggere e a scrivere, diventando così uno scrittore. Martin è innamorato di una donna che ha visto una volta sola. Il marinaio salva il fratello della giovane coinvolto in una rissa e quando lo accompagna a casa, incontra la ragazza, che però di fronte alla sua dichiarazione d’amore gli risponde che un umile marinaio non sarebbe mai stato accettato dalla sua famiglia. Così lui per amore cambia drasticamente la sua vita, diventando uno scrittore di grande successo e torna da lei, accompagnato dalla sua fama. Si accorge però che quella donna di cui è follemente innamorato è una stupida. Una donna vuota che non va più bene per il nuovo Martin; non c’è posto per lei nella sua vita. Leggendo London ho capito che potevo e dovevo scrivere. Sì è il mio autore preferito, tanto che le ultime tre pagine di Martin Eden sono le stesse che io ho usato per chiudere Tre metri sopra il cielo, ma nessun critico se n’è mai accorto.

I LIBRI DI FEDERICO MOCCIA