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Intervista a Fernanda Trías

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Fernanda Trías (originaria di Montevideo, Uruguay) è scrittrice, traduttrice e insegnante di scrittura creativa. Abbiamo l’opportunità di incontrarla a Roma, nella piccola e confortevole hall dell’albergo in cui alloggia. È in città per presentare il suo ultimo libro, un suggestivo romanzo dalle tinte distopiche già caso letterario in patria e vincitore di diversi prestigiosi premi. L’autrice capisce perfettamente l’italiano e con grande gentilezza si presta ad una lunga e stimolante chiacchierata. Discutiamo di pandemia, scrittura, ma anche di rapporti umani, ambiente, libertà.



Hai scritto Melma rosa poco prima che esplodesse la pandemia. Confrontando la realtà dei fatti con ciò che nel romanzo hai immaginato, cosa pensi si sia “avverato”? Come hai vissuto il periodo più buio della pandemia?
Ci sono stati vari elementi che sorprendentemente assomigliavano a quello che poi abbiamo vissuto, in particolare due riflessioni presenti nel romanzo. La prima senz’altro è l’ingerenza dello Stato nella vita privata dei cittadini, il fatto di non poter uscire, di stare chiusi in casa. Io credo che tutti noi pensassimo che una cosa del genere fosse davvero lontanissima, impossibile. Io sono uruguayana ma vivo in Colombia e durante la pandemia in Colombia c’era la polizia nelle strade che controllava che la gente non uscisse. Lo Stato ha assunto un’autorità impensabile. Questo è uno degli elementi che era presente nel romanzo e che poi si è effettivamente avverato. E poi tutte le teorie cospiratorie che sono venute fuori. Anche nel romanzo ci sono molte teorie, ma c’è la confusione più totale, non ci sono mezzi di informazione affidabili quindi le persone non si fidano al cento per cento di nessuno. Inoltre c’è l’argomento della paura, soprattutto nei confronti dell’altro. Nel romanzo non è un virus a causare la malattia, ma è una crisi ambientale. Tuttavia, una cosa in comune è il fatto che non si sa bene come si può arrivare a contagiarsi, cosa che all’inizio della pandemia abbiamo effettivamente visto. Questo ha accentuato moltissimo la paura nei confronti dell’altro, la paura di tutto ciò che sta fuori. Ha inasprito una tendenza che era purtroppo già presente nel mondo, quella del nazionalismo, della chiusura delle frontiere, della xenofobia. L’altro, il diverso, porta la contaminazione, il contagio. Prima il virus veniva dalla Cina, poi era africano, come se il virus avesse una nazionalità quando in realtà era un fenomeno assolutamente globale. Mi ha stupito molto vedere questo elemento nella realtà. E poi c’erano altri piccoli dettagli, come le mascherine.

Sembra significativo che la tua protagonista non abbia un nome. Puoi spiegarci questa scelta?
La verità è che non so esattamente perché non mi è sembrato naturale dare un nome a questa protagonista. A volte capita che i personaggi più importanti dei miei romanzi non abbiano un nome. Nel mio primo romanzo La azotea, la protagonista ha effettivamente un nome, viene menzionato una o due volte, ma il padre di lei, che è un personaggio fondamentale all’interno della storia, non ha mai un nome. In Melma rosa la protagonista non ha nome, proprio come la città. Si parla solo di questo paesino di villeggiatura, San Felipe, ma la città potrebbe essere una città qualunque, così come la protagonista potrebbe essere una persona qualunque, anche il lettore o la lettrice stessa.

Parlando di inizi: se dovessi indicarne uno, quale sarebbe l’inizio del viaggio che ha portato alla stesura di Melma rosa?
Il romanzo è cambiato nel corso del tempo, quindi ci sono molti inizi diversi. Dalla primissima idea è cambiato completamente. Ho cominciato effettivamente a ragionarci nel 2014, per questo quando il romanzo è uscito e in America Latina si è parlato moltissimo di quando fosse stato effettivamente scritto, uno, due o tre mesi prima della pandemia. Per me sembrava assurdo perché io ci stavo lavorando dal 2014. Di fatto a quel tempo avevo già alcuni frammenti singoli che poi sono finiti nel romanzo, ma non capivo ancora bene la storia, soprattutto la struttura. Di solito quando ho chiara la struttura ho il romanzo, perché per me è la cosa più importante. Al 2014 risalgono una serie di frammenti piuttosto onirici: le scene al fiume, l’idea che ci fosse una protagonista donna che si prendesse cura di questo ragazzino affetto dalla sindrome di Prader-Willi, l’immagine di una città portuale immersa nella nebbia e anche il concetto della melma rosa. Però non sapevo ancora come organizzare questo caleidoscopio di elementi, sapevo che c’era un filo conduttore ma non l’avevo ancora trovato. Quindi nel 2015 e 2016 ci ho ragionato molto e poi nel 2017 avevo le idee piuttosto chiare, ho potuto scrivere una sinossi abbastanza simile a quella che poi è stata la definitiva per fare domanda per partecipare a una residenza in spagna che effettivamente poi ho vinto. Sono stati quelli, il 2018 e il 2019, i due anni di scrittura più fitti.

Il tossico vento rosso e la distruzione che porta con sé rispecchiano in un certo senso la profonda crisi esistenziale che la tua protagonista vive. La sua vita si sta sgretolando, i rapporti familiari e interpersonali sono tossici, dolorosi, ma lei sembra non poterne fare a meno. Quali caratteristiche, quali dinamiche ti interessava sottolineare maggiormente della complessità dei rapporti umani e familiari?
La sfera dei rapporti interpersonali mi sembra assolutamente interessante e molto complessa, volevo esplorare diversi argomenti. Prima di tutto la maternità, ma intesa in un senso plurale, le varie forme di maternità possibile, adottiva, biologica. Mi pare che questo concetto vada di pari passo con quello dell’accudire, del prendersi cura dell’altro, che tendenzialmente si percepisce come un ruolo femminile. Come se la donna costruisse la propria identità in base all’accudire gli altri: i figli, il marito, i genitori. Solitamente è la figlia femmina ad occuparsi dei genitori quando inizia ad essercene bisogno. Ci sono moltissimi casi, almeno in America latina, di donne che restano sole per potersi prendere cura dei genitori. La protagonista costruisce la propria identità su questo bisogno di accudire gli altri. Si prende cura del marito e lo protegge da sé stesso, dalle tendenze depressive, suicide. Fa lo stesso con la madre e con Mauro, il bambino affetto dalla malattia. L’unica cosa che non fa è prendersi cura di sé stessa, come se curare degli altri sia un modo di evitare di farsi carico di sé stessa, ed è solo nel momento in cui effettivamente perde tutto che si rende conto che deve prendere delle decisioni, affrontare la propria solitudine e prendersi cura di sé stessa.

Importante, se non fondamentale, appare il ruolo narrativo degli animali. Dapprima lo stupore di veder morire i pesci, poi il panico generato dalla scomparsa improvvisa degli uccelli. Infine, gli animali nello stabilimento, materia da spremere fino all’ultimo. Quasi a voler sottolineare la natura estremamente contraddittoria del nostro rapporto con l’ambiente...
Mi importa molto il modo in cui entriamo in relazione con la natura, sia dal punto di vista degli animali che del regno vegetale. Volevo inserire questo argomento nella conversazione intorno al libro. Non solo come ci relazioniamo con gli animali, ma anche come mangiamo e soprattutto come produciamo i nostri alimenti, come entriamo in contatto con gli animali che poi diventeranno il nostro nutrimento. Mi interessa molto di più ragionare sulla produzione di questo cibo rispetto al se mangiare o non mangiare carne, e anche una riflessione su come l’essere umano si pone in modo gerarchico e di depredazione, di sfruttamento rispetto agli altri animali. Come se noi non fossimo animali a nostra volta ma fossimo qualcosa di diverso. La fabbrica è un’immagine simbolica della nostra voracità. Nella fabbrica gli animali entrano su un nastro ed escono trasformati in lattine di prodotto.

Ti rivolgo (provocatoriamente) la domanda che si pongono nel libro i personaggi di Max e Patricio: libertà o vita?
Credo che questo sia chiaramente un paradosso in cui siamo tutti immersi. Per la protagonista sembra che la risposta sia senz’altro libertà. Lei decide di restare, esercitando un ultimo atto estremo di libertà. Rimango nella città tossica per poter affermare la mia stessa libertà. Una scelta che potrebbe essere apparentemente priva di senso e però allo stesso tempo anche lei è prigioniera, se vogliamo, di questi legami. Tutto questo porta a chiedersi: sarà un vero esercizio di libertà o sarà un atto per camuffare il fatto che lei è prigioniera degli altri o di sé stessa? Mi sembra quindi che per ognuno di noi ci sia una sorta di andirivieni tra le due cose, vita e libertà. La libertà totale, assoluta, è qualcosa a cui aneliamo ma come se fosse una sorta di chimera.

Hai scelto uno stile particolare, in linea con lo stato della protagonista, che vive un “tempo poroso”, che sente il movimento della memoria nell’immobilità e nell’incertezza, il mescolarsi costante di passato e futuro. Avevi già chiaro questo stile sin dall’inizio o si è, per così dire, costruito da sé?
No, è una soluzione che si è costruita nel tempo, ci sono arrivata ragionando sul concetto del tempo. Come percepiamo il tempo, qual è il tempo della memoria, come ricordiamo. Era molto importante che la forma e lo stile del romanzo riflettessero questi ragionamenti per approfondire ulteriormente il tema.

Ad un certo punto nel romanzo troviamo una riflessione molto interessante sul raccontare il mondo: non ne vale la pena o non c’è nessuno a cui raccontarlo. Pensi che siano direzioni possibili, pericoli reali della comunicazione ai nostri giorni?
Da una parte sono assolutamente convinta che ci sia una sorta di crisi della comunicazione. Mi sembra che sempre più ci ritroviamo a parlare da soli, ognuno nella sua bolla che non interagisce mai con le altre bolle. Questo lo abbiamo visto in modo molto chiaro per quanto riguarda le fake news. C’è un ampio circolo della popolazione che è assolutamente convinto di una cosa e che approfondisce sempre e soltanto con la stessa fonte e un’altra parte della popolazione che è convinta del contrario e a sua volta approfondisce utilizzando sempre e solo le stesse fonti. Questi due grandi insiemi non trovano in alcun modo una via di dialogo, non c’è modo di capire l’altro e questo è un argomento che nel romanzo è cruciale. Mi sembra che tutto questo abbia contribuito alla crisi in cui ci troviamo oggi, una crisi ambientale, umana ed economica profondissima dovuta al fatto che il capitalismo è arrivato al suo apice massimo. Eppure, nonostante la protagonista sia disillusa, è proprio lei a raccontare la storia, a diventare testimone degli eventi. Perché credo sia in qualche modo inevitabile voler lasciare una testimonianza, voler raccontare quello che è successo anche se non abbiamo un interlocutore chiaro. Non sappiamo a chi lasciamo questa testimonianza. Magari sarà un’altra specie, qualcuno proveniente da un altro pianeta, che la raccoglierà. E questa è una tendenza dell’essere umano che mi sembra molto bella, mi sembra una pulsione di vita che ancora si conserva. Aggiungerei che la protagonista prima di licenziarsi faceva la giornalista, e il giornalismo sta attraversando un momento difficile. La funzione del giornalismo dovrebbe essere informare, ma come si fa a informare un settore della popolazione che è completamente chiuso in sé stesso? Quindi la domanda è: come possiamo creare una comunicazione effettivamente accessibile a tutti e non rimanere a parlare da soli, sempre alle stesse persone?

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