
Fioly Bocca è una donna sensibile e affabile, prima ancora che una scrittrice. Nel corso degli anni ci siano incontrate, lette, conosciute, confrontate sin dalla pubblicazione del suo primo libro nel 2015: un vero e proprio successo del passaparola. Nel frattempo sono successe molte e cose e nuovi titoli si sono aggiunti. Con Giunti prima e Garzanti poi, Fioly è diventata una scrittrice tradotta in molti Paesi del mondo con grande soddisfazione mia e dei suoi tanti lettori.
Come si è evoluta la tua scrittura in questi anni?
Scrivo con maggiore attenzione e consapevolezza. Con ancora più cura di quanta ne usavo all’inizio. Non so se questo traspaia, se si noti un effettivo miglioramento, ma posso garantire che il mio impegno a far meglio è continuo.
Quale il tuo rapporto con la terra che vivi?
Vivo tra le colline del Monferrato, in campagna. Passo molto del mio tempo libero in Vallarsa, sulle montagne del Trentino, luogo in cui è ambientato l’ultimo libro. Amo profondamente entrambi questi luoghi perché mi permettono di vivere a contatto con la natura. Sono zone per molti aspetti scomode – per i pochi servizi a disposizione, per la distanza dal luogo di lavoro e da altri luoghi di aggregazione – ma mi offrono la sensazione di pace e l’ispirazione di cui ho bisogno per vivere bene.
Per Quando la montagna era nostra cambio di editore da Giunti a Garzanti: come l’hai vissuto?
Con grande curiosità. I cambiamenti sono per me uno sprone, mi sembra si possa sempre imparare qualcosa di nuovo. Ho avuto la fortuna di lavorare con grandi professionisti, in entrambi i gruppi.
Quali le costanti nei tuoi libri?
La costante è la necessità di indagare tra le cose che mi incutono timore. È sempre un mettere il dito dove il dente duole per fare chiarezza, cercare (improbabili) risposte o anche solo suggestioni. Nell’ultimo libro che ho scritto, la madre della protagonista è una donna anziana che sta perdendo la memoria e che per questo ha la sensazione di dissolversi, di perdere contatto con la realtà e con ciò che fino a quel momento la definiva. Questa storia è nata proprio dal bisogno di provare a capire come si senta chi attraversi un momento tanto delicato. In tutte le storie che ho scritto i personaggi sono sempre in qualche modo alla ricerca di se stessi, o meglio, della parte di sé più autentica.
Nel tuo ultimo libro l’assenza è protagonista quanto i personaggi: era previsto?
Sì, era previsto. La vita di ognuno, mano a mano che si allontana dai giorni inconsapevoli dell’infanzia, è un relazionarsi continuo con l’assenza. Le persone che non ci sono più, se hanno avuto un ruolo importante nella nostra esistenza, continuano in qualche modo ad accompagnarci e a formarci. Continuano a dialogare con noi. Così succede a Lena, protagonista di Quando la montagna era nostra: si trova a fare i conti con quello che è stato, e il rimettere ordine nella propria memoria inevitabilmente incide sul suo presente, sul suo atteggiamento verso se stessa e le persone che ama.
Cosa ti hanno insegnato i tuoi libri?
Hanno confermato qualcosa che già sospettavo: è attraverso la scrittura che riesco a mettere a fuoco molte cose che mi riguardano. Scrivere storie mi aiuta a conoscermi più a fondo, e, attraverso questo processo, a comprendere un po’ meglio ciò che mi circonda.
Nel tuo romanzo Ovunque tu sarai si legge: “A volte, raramente, incontrarsi è riconoscersi”. A te è mai capitato? E di quel “raramente” quanta responsabilità abbiamo noi stessi?
Sì, mi è capitato. Raramente, appunto. Ma forse neppure così tanto, perché incontri di questo tipo non avvengono solo in amore. Può succedere con una persona che ci diventerà amica, anche quello è un legame dell’anima. Può essere anche soltanto con una “comparsa”, una persona che frequentiamo per poco, ma che in quel “poco” ha un ruolo importante. Nel “raramente” abbiamo una responsabilità: quella di non essere abbastanza attenti a quello che di importante ci succede, troppo concentrati a programmare, a correre dietro alle cose, agli impegni. Troppo distanti dai nostri bisogni reali, non riconosciamo le vere occasioni di realizzarci profondamente.
L’idea di un deus ex machina esterno alla storia - che poi non è scontato che non sia la parte più saggia di noi - quanto ti ha guidata nella scrittura?
Credo che un deus ex machina sia, come hai accennato, qualcosa che abbiamo dentro e che si manifesta quando siamo pronti ad accorgercene. È successo così anche con la scrittura di questo libro: l’idea è maturata molto a lungo, per anni, e quando io sono stata pronta si è tradotta in inchiostro e carta.
Cosa ti ha convinta a scrivere di Anita?
Una parte di me: quella che le somiglia.
Con Ovunque tu sarai è iniziato un percorso che ti ha portata ad essere un’autrice tradotta e amata in molti Paesi del mondo che effetto ti fa?
Mi sento molto fortunata per aver raggiunto un buon numero di lettori - di gran lunga superiore alle mie aspettative - e soprattutto motivata a impegnarmi per migliorare la mia scrittura e la capacità di raccontare storie. Mi sembra una specie di magia. Poco tempo fa ho partecipato a un gruppo di lettura organizzato in Turchia e dedicato a Ovunque tu sarai (in turco Lettere rosse). È stato incredibile entrare in numerose case di Istanbul, grazie a un link su Zoom e grazie a qualcosa nato dalle mie pagine. Allo stesso modo mi aveva fatto effetto ricevere da un’amica la foto di un mio libro scattata in una biblioteca alla Isole Lofoten.
Credi anche tu come Anita che gli oggetti ci parlino sempre?
Sì. Gli oggetti, i luoghi, le situazioni. Anche un libro trovato “per caso”. Tutto ci parla, se abbiamo la pazienza di stare ad ascoltare.
Cosa è rimasto fuori da questo libro?
Quello che succede quando i riflettori si spengono e la vita prosegue sui suoi binari.
Quanto hai dato e quanto hai preso da Ovunque tu sarai?
Ho dato molto e preso moltissimo. E quello che mi ha restituito è ciò che conta. Fra le altre cose: l’entusiasmo durante la scrittura, le persone belle che ho incontrato da quando ho intrapreso il viaggio, il modo in cui è stato accolto. Avere intorno amici felici della tua felicità. Soprattutto, e lo dico fuori di retorica, certi messaggi di chi lo ha letto che mi racconta che, in qualche modo, ne ha avuto qualcosa di buono.
Che rapporto hai col futuro?
Il futuro può aspettare, come ha detto qualcuno. Sono curiosa di vedere cosa sarà, non dico di no. Sono aperta al cambiamento ma, a parte alcuni -fortunatamente rari - periodi della mia vita, sono sempre felice di vestire i miei panni attuali. Il passare del tempo, da sempre, mi crea qualche angoscia. Forse questo libro, come tutta la mia ricerca attraverso la scrittura, è anche un modo per esorcizzare un po’ questa paura, a mio modo.
Quando nasce in te la passione per il significato delle parole?
Da che ho memoria. Il percorso di studi (a partire dal liceo classico, con lo studio di latino e greco) ha certamente aiutato. Mi piace trovare le etimologie, risalire al significato primitivo delle parole. Risalire all’origine.
Credi che stiamo scivolando in un’analfabetizzazione dei sentimenti?
Credo e spero di no. Ogni epoca ha il proprio modo di esprimersi, anche a livello di sentimenti ed emozioni. Non ho gli strumenti per capire davvero in che fase siamo, ma penso si tratti comunque di fasi e non di una tendenza.
Quali sono stati momenti più importanti del tuo percorso di scrittrice?
È stato importante il momento in cui mi sono resa conto che le cose che scrivo potevano avere un pubblico. Il momento in cui sono passata dallo scrivere per me allo scrivere per qualcuno che poi avrebbe avuto una propria opinione su quanto avevo prodotto. Allo stesso modo è importante ogni messaggio che mi arriva da chi ha incontrato le mie storie. Sono molto grata per ogni manifestazione di interesse da parte dei lettori: mi aiutano a crescere e sono di grande incoraggiamento.