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Intervista a Firat Cewerî

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Firat Cewerî è uno scrittore, traduttore e giornalista curdo nato nel sud-est della Turchia. Negli anni Ottanta la scelta di iniziare a scrivere nella lingua madre, proibita dal regime, e quindi la necessità di emigrare in Svezia, dove vive da allora. Lo incontro a Più Libri Più Liberi 2022, dove ha presentato il suo primo romanzo tradotto in italiano, e con piacere faccio due chiacchiere con lui.



Il tuo Il Matto, la Prostituta e lo Scrittore inizia in un’atmosfera onirica, piena di simboli. Come scrittore, ti interessava più partire da fatti reali, dalla cronaca e dalla storia, distorcendoli un po’ per renderli simili a sogni e quindi forse più facili da raccontare, oppure partire dal sogno per raccontare la realtà?
Il protagonista del romanzo, Temo, come in un sogno riceve l’ordine di uccidere qualcuno: volevo con questo simboleggiare una psicologia distorta, quella di un uomo che ha fatto quindici anni di carcere. Ha lottato per la sua città, ma il carcere l’ha distrutto, traumatizzato. Il sogno è quindi l’ingresso del trauma nella sua realtà, una forza oscura che lo spinge a cercare una vittima, una preda…

Temo si sente in qualche modo tradito, ha la sensazione che la sua sofferenza non sia riconosciuta? Esiste questo tema della mancata solidarietà e gratitudine per chi ha lottato per un ideale, sacrificando tutto se stesso?
Sì, questo tema esiste eccome. Io vivo in Svezia e mi confronto quotidianamente con la diaspora di persone provenienti da ogni parte del mondo, non solo dal Kurdistan ma anche dall’America Latina, dall’Africa, dal Medio Oriente. E nelle società che hanno visto tanti sacrificare la loro vita per anni in nome di un ideale, di una lotta il tema della loro frustrazione e della loro solitudine è fortissimo. Temo in particolare esce dal carcere con una rabbia che non sa esprimere: la sua vita è stata bloccata per anni ma nel frattempo il resto del mondo è andato avanti, la città è cresciuta, una nuova generazione si è affermata, con idee e costumi diversi. Temo non conosce più la realtà attorno a lui, la sua comunità non riconosce a lui il sacrificio fatto e lui stesso non riconosce più se stesso. Sono stato molto attento a fare in modo che Il Matto, la Prostituta e lo Scrittore non fosse solo una storia curda: potrebbe essere una storia di Harlem o di Roma o di qualsiasi altro luogo, infatti la città in cui è ambientato il romanzo non viene mai nominata. È una storia che potrebbe essere la storia di una qualsiasi comunità in cui c’è stata una lotta di liberazione.

Questa di cui ci parli non è una semplice città, è qualcosa di più, un luogo dell’anima, forse. Che città volevi raccontare?
Non nomino mai la città, ma in realtà il lettore che è vissuto in quei luoghi capisce di quale città sto parlando, a quale città sto alludendo. Volevo che potesse essere una qualunque città, ma una di quelle che negli ultimi dieci o quindi anni è cambiata in maniera rapidissima e profondissima, che è cresciuta a dismisura e in modo quasi selvaggio. Nella prima parte del romanzo la città è un personaggio come gli altri, si svela attraverso il vagare da flâneur di Temo, che cerca la sua preda mentre lancia le sue invettive contro la comunità e la città. E allora forse – senza spoilerare nulla – è proprio la città questa sua preda.

Ad un certo punto cambia il protagonista del libro, entra in scena Diana. Perché questa scelta e che rapporto hanno i personaggi?
Spesso nei miei romanzi il caso, le coincidenze hanno una grande importanza. Il fatto stesso di essere venuti al mondo in fondo non è altro che un caso. Il caso genera possibilità, occasioni narrative. È proprio il caso che fa incontrare Temo e Diana a circa metà del libro e questo incontro tra due anime ferite, deluse dall’esito della lotta di liberazione – lei addirittura dalla lotta per la patria è finita ad essere costretta a prostituirsi – e da questo caso nasce un reciproco conforto, una nuova occasione. Forse non si dovrà più uccidere, forse non ci si dovrà più prostituire, forse ci sarà un nuovo futuro. Anche se poi però nel libro non c’è un happy ending, ma un finale aperto.

A proposito di finale aperto, sappiamo che ci sarà un sequel per Il Matto, la Prostituta e lo Scrittore
Sì, è vero. Avrà una protagonista femminile, ma anche il sequel avrà in realtà un finale aperto. Faccio sempre così nei miei romanzi: sia per avere la possibilità di ritornare su quelle storie, sia perché mi piace lasciare nel lettore qualcosa che continui a vivere nella sua fantasia, che possa portare avanti a seconda dei suoi gusti e dei suoi riferimenti. Quindi non chiudere le porte all’immaginazione, ma lasciarle aperte.

Come è stato scrivere da un punto di vista femminile? Lo avevi già fatto?
È una cosa che ho fatto altre volte e continuerò a fare. Cerco di guardare al mondo e alle cose con uno sguardo che potrei definire femminista, sono attento a quello che dicono le donne e a come lo dicono. Leggo anche molte scrittrici e da loro prendo ispirazione.

Guardandoti da fuori, quanto e cosa c’è di curdo nella tua identità di scrittore?
Bella domanda. Quando ho iniziato a scrivere, l’atto stesso di scrivere in curdo – essendo questo proibito in Turchia, dove vivevo – era un atto politico, rivoluzionario. Sono emigrato per scrivere, la mia spinta artistica iniziale era politica, di rivolta. Poi però spero e credo di essermi liberato – dopo essermi liberato della censura di regime andando via dalla Turchia – di ogni autocensura, dei limiti imposti dalla nostra società. Per esempio, le domande: se scrivo questo cosa dirà la società tribale curda? se scrivo questo cosa penserà il partito? Ho cercato di superare questi limiti e quindi oggi non mi considero più uno scrittore curdo, nel senso politico e militante del termine. I miei personaggi sono esseri umani, semplicemente. Mi capita di entrare in empatia con loro, di piangere con loro, di gioire con loro. Al punto che quando inizio a scrivere non mi sento un demiurgo che decide i loro destini, ma semplicemente uno che partecipa dei loro destini, che cammina accanto a loro.

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