
Francesco Permunian è una figura sottile, ma molto interessante della nostra letteratura: raffinato, colto, ama il sarcasmo come strumento di sopravvivenza. Scrittore laterale che ha saputo trasportare nella provincia il senso erudito, ma mai pedante, della letteratura. Non a caso è fra le firme più ricercate del Festival Letteratura di Mantova. Lo abbiamo intervistato per voi durante l’edizione 2023 della prestigiosa kermesse letteraria.
I tuoi sono racconti di provincia, piccoli ritratti di un mondo lontano dal caos delle grandi città. Cos’ha di magico, fascinoso ed unico la provincia? Perché è così centrale nella narrazione umana? Che sia il Polesine che sia il Garda…
Sono nato e cresciuto nella provincia italiana degli anni Cinquanta, in quella parte del Delta Padano stretto fra l’Adige e il Po chiamato Polesine. Terra povera e amara anche per via delle profonde ferite ereditate dalla guerra e dal fascismo, a cui si aggiunse nel novembre del 1951 la grande alluvione del Po che letteralmente devastò quelle campagne spingendo migliaia di famiglie a emigrare altrove, specie in Piemonte e Lombardia, ma anche all’estero. Tutto ciò, ovviamente, mi ha segnato profondamente generando in me un sentimento di fatalismo e al contempo di ribellione. Fatalismo che mi derivava dalla famiglia contadina (e cattolicissima) dei miei nonni materni; spirito ribelle trasmessomi invece dalla figura di mio nonno paterno che mi avviò alle prime letture ed esperienze politiche. Ed è quindi là, in quelle terre polesane da cui pure io me ne andai una quarantina di anni fa per fare il bibliotecario sul Garda, che sono rimaste oggi le scorie del mio passato. Le tombe dei miei cari. I sospiri e i sussurri di quelle lontane ombre familiari il cui richiamo (o “fascino”, che dir si voglia) continua a germogliare ancora nella mia mente. Nelle mie ossessioni.
Vivi da anni a Desenzano, a due passi da Salò. Spesso ci racconti di nostalgie per la Repubblica e per il Duce. È davvero così? Come te lo spieghi?
Della nostalgia per il Duce e per il Fascismo, un sentimento purtroppo tuttora presente sul Garda, io ne ho sempre fatto la parodia. Sono altri i miei valori. I miei ideali, che s’ispirano tutti alla Resistenza al nazifascismo. Non è infatti un caso se una decina di anni fa io sia ritornato nella mia terra d’origine assieme a un grande fotografo, Mario Dondero, e assieme a lui abbia passato in rassegna i luoghi della Resistenza in Polesine. Ne parlo in un libretto uscito quest’anno per le Edizioni Scientifiche dal titolo Tutti chiedono compassione e altre microstorie. Ma soprattutto ne avevo accennato in Elogio dell’aberrazione, edito da Ponte alle Grazie nel 2022, con le figure tragicomiche e grottesche del Duce e di D’Annunzio, assieme a quella – tragica e disperata - di Pier Paolo Pasolini in occasione del suo ultimo film ambientato per l’appunto a Salò.
Spesso il protagonista è un tuo alter ego, o un giornalista. Raccontare è un’esperienza personale e basta?
Raccontare è un bisogno primario dell’uomo. Una terapia contro la morte e l’oblio, a cui siamo tutti destinati. E di cui abbiamo tutti un terrore invincibile. La mia è dunque una letteratura di sopravvivenza, o quantomeno così mi illudo. Una sfida per resistere – almeno per un po’ e con un po’ di dignità – a quella inevitabile sconfitta finale che ci aspetta da sempre, fin dal nostro primo vagito.
Aberrazione, smarrimento, crudeltà, collera … I titoli dei tuoi romanzi, sempre molto brevi e ficcanti, rinviano a una semantica della rappresentazione cinica e grottesca. I personaggi sono tipi, probabilmente presi dal tuo osservatorio privilegiato di scrittore, di un mondo decadente. Però c’è sempre molta ironia a tenere insieme la polvere della tua narrazione. È davvero così il mondo o questa che tu ci proponi è la miglior ricetta per poter vivere e sopravvivere?
Mi proteggo con il sarcasmo e l’ironia per non sprofondare in certe situazioni che non mi piacciono. Per tenermi a debita distanza da quel narcisismo di massa (una vera e propria patologia sociale!) oggi imperante nella nostra società, specie nella cosiddetta “società delle lettere”, mai così vacua e pretestuosa…
Cosa è stato più determinante per la tua ispirazione, avvicinarti nei tuoi studi universitari alla poesia o fare il bibliotecario di mestiere?
La lettura giovanile dei grandi poeti mi ha “educato” a quel rigore e a quella essenzialità nell’uso delle parole che richiede sempre la poesia. È stata insomma una grande scuola di formazione. Esercitare il mestiere di bibliotecario in un paese di provincia, in contatto quotidiano con lettori giovani e anziani e di ogni classe sociale, mi ha permesso invece di selezionare quei tipi e quelle maschere umane che lentamente - ma poi sempre più prepotentemente - si trasferirono dalla realtà alla pagina scritta. Dal mondo reale a quello fantastico e fantasioso delle mie storie letterarie.
I LIBRI DI FRANCESCO PERMUNIAN