
Gabriela Garcia incontra (in remoto) i blogger letterari e giornalisti italiani in una conferenza stampa organizzata dalla sua casa editrice, la HarperCollins Italia, per la presentazione ufficiale del suo primo romanzo, che esce in Italia dopo il grandissimo successo in America. L’editor Ilaria Marzi racconta com’è avvenuta l’acquisizione del romanzo e quelle che sono state le sue emozioni, prima di dare il via alle domande di un’intervista a più voci.
C’è un motivo per cui hai scelto di raccontare le storie delle donne di Sale di mare e lacrime in modo non lineare? Ed è stato difficile tenere insieme stili, ambientazioni, epoche, voci, tematiche?
Fin da subito ho capito che non avrei voluto scrivere una storia lineare, con lo stile occidentale per intenderci. L’ho voluta immaginare proprio come quei momenti quando, con la mia famiglia, ci si sedeva intorno a un tavolo e ognuno cominciava a raccontare una storia. Più o meno è questo che ho cercato di trasporre nelle pagine del libro. Mi sono voluta distaccare dal modo di raccontare temporalmente coerente, che è appunto occidentale, per trovare un nuovo modo, magari maggiormente frammentato ma più corrispondente al vero. Ho voluto immaginare che ci fosse lo stesso sapore dei ricordi, delle testimonianze, lasciando spazio all’incognito che rappresenta un po’ anche la differenza tra il racconto fatto da una persona e quello dal punto di vista di un’altra.
La storia di Maria Isabel e la sua consapevolezza politica che deriva dal leggere giornali e libri agli operai è estremamente affascinante e non così conosciuta. Almeno è la prima volta che ne sento parlare. Come hai scoperto l’esistenza di questi “lettori” e come ti sei documentata?
Sono cresciuta circondata da sigari, perché nella mia famiglia ne sono circolati sempre molti. Leggevo i nomi che avevano, tutti letterari, come i famosi “Romeo e Giulietta” o “Montecristo”, ma non ne sapevo la storia, finché in un viaggio a Cuba, dove ho visitato un museo, ho trovato esposte delle lettere che Victor Hugo aveva scritto ai lavoratori e ai combattenti per l’indipendenza cubana. Sono rimasta affascinata di questo rapporto fra il letterario e il politico, sono rimasta colpita dal fatto che ci fosse questa abitudine di leggere non solo libri, ma anche giornali nelle fabbriche di tabacco, però sono rimasta anche colpita dal fatto che era sempre tutto raccontato da un’unica prospettiva, quella cioè di uomini, bianchi, europei, come appunto Victor Hugo o discendenti di uomini bianchi a Cuba e perciò ho cercato di immaginare come questo viaggio di consapevolezza politica potesse essere affrontato da una donna e ho trasferito tutto in questo personaggio, Maria Isabel, che trova la libertà nella letteratura e diventa anche consapevole dell’esistenza di questo sguardo “bianco e maschio”. Per poter scrivere di questo lettore all’interno della fabbrica di tabacco, ho fatto delle ricerche sia a Cuba che in altri archivi storici.
Perché hai scelto di citare e di far tramandare alle varie generazioni del tuo romanzo proprio I Miserabili di Hugo?
Perché proprio durante le ricerche su Cuba e sui lettori all’interno delle fabbriche di sigari, ho avuto modo di constatare che era un libro molto popolare a quei tempi e ho pensato anche quanto, come lettura, ha influenzato me. Leggere I miserabili mi ha dato grandi emozioni e creato grande consapevolezza, così mescolando il tutto ho deciso di utilizzarlo.
Tua madre è cubana e tuo padre messicano. Hai lavorato per aiutare donne e bambini nei Centri di detenzione per migranti. C’è qualcosa di autobiografico nel tuo romanzo?
No, il romanzo non è autobiografico in alcun modo, la mia famiglia è completamente diversa da quella che vi è descritta. Ovviamente, come naturale, ci sono dei piccoli pezzi di me in tutto quello che scrivo. Sì, ho lavorato prima di fare dello scrivere la mia professione in questi Centri di detenzione per migranti con donne e bambini e questa esperienza mi ha colpita molto, quindi alcune storie vengono proprio da questo periodo della mia vita.
Sei cresciuta in una famiglia matriarcale: quanto tutto questo ha influenzato il tuo modo di pensare?
Sono stata cresciuta da una madre single, ho solo sorelle, anche mia madre ha solo sorelle e mia nonna ha solo sorelle e sono stata costantemente, fin da piccola, circondata da donne, educata da donne. Ma non ho mai sentito una mancanza in questo, anzi mi sono sempre sentita supportata da questo grande cerchio al femminile intorno a me. Questo ha certamente influenzato il mio scrivere, mi piace e mi interessa scrivere di donne, come vivono o forse è meglio dire sopravvivono, in questo mondo patriarcale, dei legami, delle amicizie... Ecco, questi sono i temi che io affronto in genere nei miei racconti, perché io scrivo anche racconti.
I caratteri femminili dei tuoi personaggi sono molto interessanti ed estremamente credibili: in quale ti riconosci di più?
I personaggi sono tutti piuttosto diversi, non solo tra di loro, ma anche da me. Però mi sento - da un certo punto di vista - legata a tutti e allo stesso tempo anche un po’ frustrata da tutti. Forse il personaggio a cui mi sento più vicina è Jeanette, la figura che mi è riuscita più facile da movimentare nella trama del romanzo e anche da presentare, visto che mi è molto vicina per certi aspetti: più o meno abbiamo la stessa età, Jeanette viene da Miami come me, siamo cresciute in un contesto molto simile in Florida.
E invece il personaggio nel quale ti riconosci meno?
Sicuramente tutti i personaggi diversi da me per background e contesto culturale. Sono stati questi i personaggi che mi hanno creato più difficoltà, perché hanno richiesto maggiori ricerche. Per esempio il personaggio femminile che emigra da El Salvador, ma anche la stessa Maydalis (la cugina di Jeanette) che vive a Cuba e quindi in un contesto diverso rispetto a quello nel quale sono cresciuta io.
Ti senti più “woman” o “mujer”?
Il concetto di identità è molto complesso e queste due dimensioni di “woman” americana e “mujer” (per l’origine latina dei miei genitori) convivono ovviamente in me in base a questa esperienza di figlia di immigrati e cittadina americana e nata negli Stati Uniti e la mia esperienza è molto diversa rispetto a quella dei genitori che invece nati a Cuba e in Messico e poi si sono trasferiti negli Stati Uniti e hanno avuto anche la difficoltà di ricominciare da capo in un contesto totalmente nuovo, ma con un bagaglio di esperienze e di cultura anche linguistica importante e diverso rispetto al Paese che li ha ospitati.
Ti sono capitate cose particolari, scoperte, letture, mentre stavi scrivendo, che hanno cambiato il corso delle storie che avevi in testa o dei personaggi?
Di solito ho sempre un’idea precisa della direzione che prenderanno le mie storie, anche se poi mi capita di cambiare qualche dettaglio. Per esempio in questo libro ho scoperto, strada facendo, che il finale che avevo in mente sarebbe risultato poco credibile e convincente, ma soprattutto non coerente con i personaggi del romanzo e l’ho cambiato. Non è successo nulla in particolare durante la scrittura che mi abbia spinta a cambiare dei dettagli, piuttosto mi sono successe parecchie cose dopo aver terminato il libro. Soprattutto mi è stato chiesto da un editore il perché avessi lasciato nel libro la parte con la storia sul campo di detenzione dove vengono portate Ana e la mamma Gloria, anche perché durante la presidenza Trump c’era stata una grande polemica su questi centri al confine, quindi diventava un argomento un po’ scomodo. Invece, proprio perché io vi ho lavorato, ho deciso di mantenere la storia con quella che è stata la mia esperienza, peraltro precedente alla presidenza Trump.
Il tuo libro è già uscito - ed ha avuto un grande successo - negli Stati Uniti: come è stato accolto dai giovani, che sono meno abituati a libri che intrecciano la Storia con le singole storie individuali?
Quando è uscito il libro ho ricevuto tantissimi commenti da parte di persone che per un motivo o per un altro si sono riconosciute nei personaggi, che hanno scoperto punti in comune e che magari avrebbero voluto più dettagli su determinati aspetti. Questo è un riscontro molto interessante, ma ancor di più lo è il fatto che ciascuno può prendere qualcosa dal mio romanzo. Quando scrivo lo faccio pensando al tipo di storia che mi piacerebbe leggere, quindi non penso necessariamente a un tipo specifico di pubblico.
Chi, tra le tue colleghe scrittrici, ti piace leggere di più?
Sono interessata a scrittrici che si occupano di tematiche femminili, complessità, i chiaroscuri dei rapporti tra donne. Amo molto come scrittrice Toni Morrison e poi Sylvia Plath, ammiro moltissimo Elena Ferrante, proprio per la complessità che riesce a mettere quando descrive i suoi rapporti di amicizia femminili.
Un’ultima domanda sul titolo del tuo romanzo: quello originale è Of women and salt, quello italiano è stato tradotto Sale di mare e lacrime, sicuramente evocativo, ma leggermente diverso dall’originale…
Oltre a romanzi e racconti, io scrivo poesie, quindi penso ai titoli per la narrativa come li penso per le poesie: cerco dei titoli che non siano letterali ma che siano evocativi, devono riferirsi a determinati sentimenti, a sensazioni specifiche. Penso alle immagini e anche alle stesse parole che compaiono più spesso e nel caso specifico di questo romanzo la parola “salt”, sale, compare diverse volte ed è una parola molto evocativa che rimanda a moltissimi significati, come poi è successo nella traduzione italiana, perché pensando alla parola viene in mente il sale del mare, ma anche quello delle lacrime e da sola è una parola evocativa di tante altre immagini. E poi ci tenevo che nel titolo originale comparisse la parola “women”, donne, perché tutto il mio romanzo è costruito intorno alla storia, alle figure e alle voci di donne. La traduzione del titolo in un’altra lingua, poi, fa parte di una scelta editoriale che pur rimanendo fedele al titolo originale, deve far in modo di non perdere la musicalità.