
Lucca Comics & Games 2016 è l’occasione per fare qualche domanda a Giacomo Bevilacqua. Classe 1983, comincia la sua carriera nel 2006 sugli albi di John Doe (Editoriale Aurea). Nella sua carriera ha scritto testi comici per teatro e televisione, disegnato una miniserie di GI Joe (IDW Publishing), creato dieci cortometraggi animati di A Panda Piace trasmessi da La7 e tratti da tre suoi volumi, ha avuto una rubrica fissa su “Wired”, ha pubblicato un fumetto horror. Collabora con Sergio Bonelli per la nuova collana di Dylan Dog, per cui sta preparando un numero speciale in uscita nel 2017.
“La casualità è la cosa più spaventosa del mondo, perché contro di lei non esistono regole. E l’unica cosa che puoi fare è contare”. Uno, due, tre, quattro… L’hai fatto anche tu, con le tavole del tuo primo romanzo a fumetti?
Esattamente, le ho contate tutte, dall’inizio fino al giorno della consegna. All’inizio erano 94, poi sono diventate 120, poi 150 e alla fine 190, è stato un albo in continuo divenire, e contare per me è stato fondamentale, questo libro in fondo è un flusso di coscienze, se non fossi rimasto appigliato a qualcosa, mi sarei perso, ho scelto i numeri.
Quando nasce la tua passione per le storie disegnate?
Sin da quando sono piccolo, mio padre è sempre stato un avido lettore di fumetti, e li ho sempre avuti in casa, da quando ho imparato a leggerli, non ho più smesso.
Il tuo animale totem è un panda ansioso. A panda piace Giacomo Bevilacqua? Siete la stessa entità oppure esprime ciò che in una realtà parallela faresti tu se non esistessero le regole sociali?
Panda è sempre stato il mio “diario”. Ogni volta che sento il bisogno di raccontare qualcosa di intimo o qualcosa che reputo divertente, scelgo di farlo fare a lui. Dopo Ansia la mia migliore amica, la graphic novel di Panda pubblicata a giugno, ho deciso però di prendermi una piccola pausa (non dalla pagina facebook @pandapiace, ovviamente, quella continua ad esistere) anche perché il nostro è sempre stato un rapporto simbiotico, nel momento in cui si sentirà pronto, sarà Panda stesso a venirmi a bussare e a chiedermi di raccontare cose nuove attraverso di lui, ne sono certo.
Il protagonista del tuo Il suono del mondo a memoria è un fotografo. Anche tu ti cimenti in quest’arte?
Se c’è una cosa che non so fare nella vita sono proprio le fotografie, sono totalmente negato, basti pensare al fatto che se dovevo fare una foto ad uno scorcio di New York che mi sarebbe servita per una vignetta del libro, dovevo farla almeno 20-30 volte, perché ogni volta c’era qualcosa che non andava.
Nel tuo ultimo libro c’è scritto che è il tuo primo albo a colori. Sono caldi e molto evocativi. Come li hai scelti?
Ho vissuto a New York nel 2012 e nel 2013, questo libro l’ho realizzato interamente una volta tornato a Roma. Ogni foto reference che ho fatto mentre ero a New York, l’ho fatta rigorosamente in bianco e nero. La vera difficoltà, per me, nel realizzare questo libro, è stata quella di tornare indietro con la memoria e cercare di ritrovare i colori e le atmosfere di quella città, questi sono i colori come li ricordo io, come li ha processati la mia memoria, né più né meno.
Solitamente la tua attitudine nell’illustrato è comica, cosa ti ha portato verso una storia in cui prevalgono emozioni più intime?
Da quando sono diventato un autore completo ho sempre saltato da un argomento all’altro, dalle prime strisce di Panda passando per Metamorphosis e per Ansia la mia migliore amica.Il suono del mondo a memoria per me è un inno all’amore, che può sfociare anche nel melenso talvolta, ma è una scelta voluta: questo libro è ciò che io avevo da dire riguardo l’amore, e ho cercato di metterci dentro il più possibile sull’argomento, non dico che è il mio modo di dire “Ok, chiuso l’argomento, ora il prossimo libro parlerà di qualcosa di completamente diverso” ma quasi, è come se io per ogni libro che faccio andassi per macro argomenti. Metamorphosis parla del cambiamento, Ansia la mia migliore amica parla del lutto, Il suono del mondo a memoria parla dell’amore, il prossimo è Lavender, un horror psicologico ambientato su un’isola deserta, uscirà nel 2017 per la Sergio Bonelli Editore e parlerà della crescita.
Qual è l’insegnamento più grande che ti hanno lasciato i tuoi “maestri”, se ce ne sono stati?
Che è impensabile fare il fumettista e non leggere fumetti fatti da altri.
Il fumetto è fantasia, ma è anche disciplina. Come accordi questi due aspetti? Hai dei riti per cominciare una nuova storia?
Alcune storie mi arrivano da sole, altre nascono piano piano in una specie di fucina interiore. Quando sono pronte, scelgono loro il modo migliore per venire fuori, può esserci per primo uno schizzo, un’ ambientazione, un volto, uno scorcio, o possono esserci poche righe, un dialogo, qualcosa di scritto che possa capire solo io e da cui poi si dipanerà l’intera storia. Quando questo “embrione” diventa un contratto firmato con un editore, ogni singolo pensiero che la riguarda diventerà un pezzo che magari mi servirà in futuro, e qui entra in gioco la disciplina, e se non c’è quella, i pensieri volano via e si perdono. In ogni caso, per me, ogni storia non è mai nata come quella precedente, ognuna ha avuto una gestazione differente, e questa cosa mi affascina e mi spaventa molto allo stesso tempo.
Se potessi vivere per un mese non in una città particolare ma in un libro, quale sceglieresti?
In un libro di Jonathan Coe se volessi vivere un’avventura singolare, in un libro di Betty Edwards se volessi esercitarmi senza distrazioni su disegno e colore.