
Gianluca Ales è un giornalista, inviato all’estero per Sky Tg24. Il suo lavoro lo ha portato a coprire alcuni degli eventi più importanti degli ultimi anni: le elezioni palestinesi, il funerale di Arafat, gli attentati di Madrid, il terremoto di Bam, lo tsunami di Banda Aceh, in Indonesia. Un cronista con l’elmetto, dato che è stato testimone di diversi conflitti: Afghanistan, Libia, Gaza, Egitto. Nel frattempo ha trovato il tempo di cimentarsi con un'altra forma di scrittura, diversa da quella giornalistica: la narrativa. Per questo lo abbiamo raggiunto: per parlare del suo ultimo romanzo. E non solo.
Una notte sbagliata descrive i meccanismi della criminalità romana. Sono noti gli ultimi casi di cronaca che hanno investito la Capitale. Una domanda è d’obbligo, dunque: veggenza?
Veggenza? Magari! No, direi di no. Io vivo a Roma e bastava dare una letta ai giornali per rendersi conto di quel che stava accadendo: omicidi nei quartieri residenziali; “regolamenti di conti nelle periferie”; un malaffare diffuso. Mi sono sentito un po’ come quegli umoristi che sul finire degli anni Ottanta facevano battute sulla corruzione del CAF, e che venivano accusati di qualunquismo e disfattismo: non sapevano guardare lo splendore del nuovo miracolo italiano (ok, l’ha detto qualcun altro un po’ dopo, ma la ciccia era quella). Anche Grillo pagò un pesante dazio per le sue battute su Craxi a Sanremo. Poi venne “Mani pulite”. Tutti a dire che erano stati dei profeti, ma la realtà è che tutto accadeva sotto i nostri occhi. Come oggi la criminalità organizzata a Roma. Mi hanno accusato di fare allarmismo, poi i fatti mi hanno dato ragione. Anzi, come al solito la realtà ha superato di gran lunga la finzione. Anche se voglio chiarire che per me la criminalità è solo uno sfondo per la storia che volevo narrare. A me interessano i personaggi, soprattutto. Non avevo alcuna intenzione di scrivere un saggio o un reportage, perché in effetti io mi occupo di altre cose. Ho letto, mi sono documentato, ho tirato i fili. Poi magari, come giornalista, ho affinato la sensibilità per tutto quello che mi circonda, ma nulla di più. Certo, mi piace pensare alla lezione di Pasolini, quando dice «Io non ho le prove, ma so chi sono i colpevoli». Ecco, quel che sapevo io non lo potevo dire con le prove, ma intuivo chi faceva cosa. E la narrativa è una buona via d’uscita per parlare di argomenti che giornalisticamente avrebbero bisogno di una maggiore accuratezza documentale.
Leggendo Una notte sbagliata ci si immerge in storie di criminalità, ma anche di disperazione. Alcuni personaggi, a loro modo, sono dei disperati. Dei perdenti. Degli antieroi. Perché hai voluto far emergere questo elemento?
Sono tutti perdenti, in effetti. Ma i perdenti, letterariamente, sono più interessanti. E in genere sono muti. La storia la scrivono i vincitori, no? Del resto, mi è stato fatto notare che il mio è un libro sulle occasioni perse, sulle possibilità mancate. Tutti, o quasi, nel mio libro sarebbero potuti essere persone diverse, se non migliori. Sono convinto che la vita ti costringa a scegliere, ma che spesso ti dia poche possibilità. I miei perdenti sono persone che avrebbero potuto imboccare una qualsiasi altra strada ma che hanno fatto un certo tipo di scelta. Naturalmente, capire non significa giustificare, ma è uno sforzo che si deve compiere ogni volta che ci si trova di fronte a qualcuno che sbaglia. Domandarsi: se io fossi nato lì, se avessi frequentato quell’ambiente, se mi fossero stati insegnati quei valori – o se non me ne fosse stato insegnato alcuno – che cosa avrei fatto? Inoltre, letterariamente frequento un genere, il noir, in cui Chandler definisce Marlowe, il suo eroe, “un fallito”. I personaggi di Ellroy sono eufemisticamente una carrellata di depravati. Winslow ti fa affezionare a dei mascalzoni. Bunker parla solo di sconfitti. Loro sono stati la mia principale ispirazione, potevo discostarmene? E poi i vincenti sono un po’ come Topolino: belli, bravi, sorridenti. Ma mi stanno sulle balle. Io preferisco Paperino. E in fondo, per certi versi, non siamo tutti dei perdenti?
L’azione del romanzo è concentrata in poche ore in cui succede praticamente di tutto. Si percepisce, nella lettura, quasi un andamento pulp. Perché questa scelta?
Non so. Il genere pulp, inteso come esaltazione estetica delle violenza, non mi interessa molto. Il mio romanzo è anche una riflessione sulla violenza, e ce n’è moltissima ma, se vogliamo, ha un obiettivo opposto rispetto alla letteratura pulp, che pure in Italia ha avuto buoni risultati, basti pensare al Brizzi di Bastogne o a Fango di Ammaniti. Però io ho tentato di descrivere la violenza per quello che è: brutale, insensata, senza alcun valore estetico. Se invece per pulp alludi all’andamento frenetico, credo che derivi dalla mia formazione televisiva. Per me il ritmo è tutto, nella scrittura. E se devo convincere qualcuno a leggersi seicento pagine, be’, tutti i trucchi per voltare la pagina sono legittimi. Mica volevo scrivere i Buddenbrok…
Con Romanzo criminale De Cataldo ha aperto una finestra importante sulla storia della Banda della Magliana. Ma dopo la banda, il magma criminale romano si è frammentato: mafia cinese, ‘Ndrangheta, Camorra. Proprio la realtà che descrivi nel tuo romanzo.
Romanzo Criminale è un pilastro per chiunque voglia occuparsi di Roma. Ma io col mio romanzo non volevo farne (anche perché non ho il talento di De Cataldo) una versione degli anni Duemila. In quel romanzo c’era già scritto tutto: la liquidità del tessuto criminale romano, le infiltrazioni mafiose, il legame con la destra eversiva, i servizi deviati, la politica. Uno scenario drammaticamente attuale. Io mi sono concentrato su un altro aspetto, e cioè sul peso della criminalità straniera, in particolare quella cinese. Detto questo, ritengo che, rispetto a Romanzo criminale, la Banda non sia mai scomparsa, ma abbia mutato solo l’aspetto e che ci sia ancora, in giacca e cravatta, a tessere le fila con tutti gli altri attori. Mi vedo costretto a fare una previsione: non credo, purtroppo, che l’inchiesta di “Mafia Capitale” debellerà il fenomeno. Siamo un paese corrotto e la Capitale è solo lo specchio della nazione. Quel che ha scritto De Cataldo è uno spaccato della Roma dagli anni Settanta ai Novanta. Ma vale per oggi e, temo, anche per domani.
Mi sembra di aver scorto, nelle pagine di Una notte sbagliata, alcuni elementi autobiografici o legati alla tua attività di giornalista.
Tutti gli scrittori, credo anche quelli di fantascienza, attingono al proprio vissuto. Certo, non fossi stato in guerra, non avrei potuto descrivere l’atmosfera che si respira in certe situazioni. Ma io in Afghanistan ci sono stato ora, non sotto i sovietici. E la Cecenia la conosco grazie a Nicolai Lilin e Anna Politkovskaja. L’Iran è il mio pane quotidiano, anche se ci sono stato una volta sola. Diciamo al 50%. Molti ricordi – soprattutto le sensazioni – e molta documentazione. Forse la scena che più riflette l’atmosfera che ho respirato realmente è il massacro nel paesino ceceno. Il silenzio di quello che Perez Reverte definisce il “territorio comanche”, la linea del fronte. Io l’ho sentito a Tripoli, durante la caduta di Gheddafi, o in Libano, a Qana, nella guerra del 2006. È qualcosa che ti rimane dentro, come una morsa di gelo che ti stringe il petto. La sensazione che ti fa dire, con scarsa eleganza: ma perché cavolo di motivo mi sono ficcato in questa situazione? Non saprei descriverlo meglio. Poi c’è anche altro, naturalmente: che so, la volta che la mia colonna è finita su un IED a Shindand, l’esperienza del militare a Sulmona, i ricordi di mio padre avvocato penalista, i miei primi pezzi da cronista di nera, o semplicemente collage di persone che ho conosciuto. Direi che sì, ho attinto parecchio alle mie esperienze, in alcuni casi modificandole quel minimo da renderle più letterarie, a volte stravolgendole. Anche i personaggi. E, anticipo la tua domanda, quello che riflette di più il mio carattere è Skizzo, anche se vorrei essere come Padorin.
Hai già in cantiere un altro romanzo?
Sì, ci sto lavorando da poco, rielaborando una storia che avevo scritto più di vent’ anni fa. All’epoca era agonista di kick boxing e mi proposero di fare il buttafuori per dei locali. L’humus in cui mi muovevo (erano gli anni Ottanta) non è cambiato poi tanto. Quel miscuglio di mondanità e malavita di basso rango, alta società e coatti, arrivismo e superficialità. Ho una sola difficoltà: la cronaca mi sta scavalcando (non so se a destra o sinistra, in effetti) e forse mi devo fermare ad aspettare per vedere come finisce questa storia. Anche se, come ho detto, non credo che si potrà mai scrivere la parola “fine”: avrò materiale fino alla pensione. Purtroppo.
I libri di Gianluca Ales
Una notte sbagliata descrive i meccanismi della criminalità romana. Sono noti gli ultimi casi di cronaca che hanno investito la Capitale. Una domanda è d’obbligo, dunque: veggenza?
Veggenza? Magari! No, direi di no. Io vivo a Roma e bastava dare una letta ai giornali per rendersi conto di quel che stava accadendo: omicidi nei quartieri residenziali; “regolamenti di conti nelle periferie”; un malaffare diffuso. Mi sono sentito un po’ come quegli umoristi che sul finire degli anni Ottanta facevano battute sulla corruzione del CAF, e che venivano accusati di qualunquismo e disfattismo: non sapevano guardare lo splendore del nuovo miracolo italiano (ok, l’ha detto qualcun altro un po’ dopo, ma la ciccia era quella). Anche Grillo pagò un pesante dazio per le sue battute su Craxi a Sanremo. Poi venne “Mani pulite”. Tutti a dire che erano stati dei profeti, ma la realtà è che tutto accadeva sotto i nostri occhi. Come oggi la criminalità organizzata a Roma. Mi hanno accusato di fare allarmismo, poi i fatti mi hanno dato ragione. Anzi, come al solito la realtà ha superato di gran lunga la finzione. Anche se voglio chiarire che per me la criminalità è solo uno sfondo per la storia che volevo narrare. A me interessano i personaggi, soprattutto. Non avevo alcuna intenzione di scrivere un saggio o un reportage, perché in effetti io mi occupo di altre cose. Ho letto, mi sono documentato, ho tirato i fili. Poi magari, come giornalista, ho affinato la sensibilità per tutto quello che mi circonda, ma nulla di più. Certo, mi piace pensare alla lezione di Pasolini, quando dice «Io non ho le prove, ma so chi sono i colpevoli». Ecco, quel che sapevo io non lo potevo dire con le prove, ma intuivo chi faceva cosa. E la narrativa è una buona via d’uscita per parlare di argomenti che giornalisticamente avrebbero bisogno di una maggiore accuratezza documentale.
Leggendo Una notte sbagliata ci si immerge in storie di criminalità, ma anche di disperazione. Alcuni personaggi, a loro modo, sono dei disperati. Dei perdenti. Degli antieroi. Perché hai voluto far emergere questo elemento?
Sono tutti perdenti, in effetti. Ma i perdenti, letterariamente, sono più interessanti. E in genere sono muti. La storia la scrivono i vincitori, no? Del resto, mi è stato fatto notare che il mio è un libro sulle occasioni perse, sulle possibilità mancate. Tutti, o quasi, nel mio libro sarebbero potuti essere persone diverse, se non migliori. Sono convinto che la vita ti costringa a scegliere, ma che spesso ti dia poche possibilità. I miei perdenti sono persone che avrebbero potuto imboccare una qualsiasi altra strada ma che hanno fatto un certo tipo di scelta. Naturalmente, capire non significa giustificare, ma è uno sforzo che si deve compiere ogni volta che ci si trova di fronte a qualcuno che sbaglia. Domandarsi: se io fossi nato lì, se avessi frequentato quell’ambiente, se mi fossero stati insegnati quei valori – o se non me ne fosse stato insegnato alcuno – che cosa avrei fatto? Inoltre, letterariamente frequento un genere, il noir, in cui Chandler definisce Marlowe, il suo eroe, “un fallito”. I personaggi di Ellroy sono eufemisticamente una carrellata di depravati. Winslow ti fa affezionare a dei mascalzoni. Bunker parla solo di sconfitti. Loro sono stati la mia principale ispirazione, potevo discostarmene? E poi i vincenti sono un po’ come Topolino: belli, bravi, sorridenti. Ma mi stanno sulle balle. Io preferisco Paperino. E in fondo, per certi versi, non siamo tutti dei perdenti?
L’azione del romanzo è concentrata in poche ore in cui succede praticamente di tutto. Si percepisce, nella lettura, quasi un andamento pulp. Perché questa scelta?
Non so. Il genere pulp, inteso come esaltazione estetica delle violenza, non mi interessa molto. Il mio romanzo è anche una riflessione sulla violenza, e ce n’è moltissima ma, se vogliamo, ha un obiettivo opposto rispetto alla letteratura pulp, che pure in Italia ha avuto buoni risultati, basti pensare al Brizzi di Bastogne o a Fango di Ammaniti. Però io ho tentato di descrivere la violenza per quello che è: brutale, insensata, senza alcun valore estetico. Se invece per pulp alludi all’andamento frenetico, credo che derivi dalla mia formazione televisiva. Per me il ritmo è tutto, nella scrittura. E se devo convincere qualcuno a leggersi seicento pagine, be’, tutti i trucchi per voltare la pagina sono legittimi. Mica volevo scrivere i Buddenbrok…
Con Romanzo criminale De Cataldo ha aperto una finestra importante sulla storia della Banda della Magliana. Ma dopo la banda, il magma criminale romano si è frammentato: mafia cinese, ‘Ndrangheta, Camorra. Proprio la realtà che descrivi nel tuo romanzo.
Romanzo Criminale è un pilastro per chiunque voglia occuparsi di Roma. Ma io col mio romanzo non volevo farne (anche perché non ho il talento di De Cataldo) una versione degli anni Duemila. In quel romanzo c’era già scritto tutto: la liquidità del tessuto criminale romano, le infiltrazioni mafiose, il legame con la destra eversiva, i servizi deviati, la politica. Uno scenario drammaticamente attuale. Io mi sono concentrato su un altro aspetto, e cioè sul peso della criminalità straniera, in particolare quella cinese. Detto questo, ritengo che, rispetto a Romanzo criminale, la Banda non sia mai scomparsa, ma abbia mutato solo l’aspetto e che ci sia ancora, in giacca e cravatta, a tessere le fila con tutti gli altri attori. Mi vedo costretto a fare una previsione: non credo, purtroppo, che l’inchiesta di “Mafia Capitale” debellerà il fenomeno. Siamo un paese corrotto e la Capitale è solo lo specchio della nazione. Quel che ha scritto De Cataldo è uno spaccato della Roma dagli anni Settanta ai Novanta. Ma vale per oggi e, temo, anche per domani.
Mi sembra di aver scorto, nelle pagine di Una notte sbagliata, alcuni elementi autobiografici o legati alla tua attività di giornalista.
Tutti gli scrittori, credo anche quelli di fantascienza, attingono al proprio vissuto. Certo, non fossi stato in guerra, non avrei potuto descrivere l’atmosfera che si respira in certe situazioni. Ma io in Afghanistan ci sono stato ora, non sotto i sovietici. E la Cecenia la conosco grazie a Nicolai Lilin e Anna Politkovskaja. L’Iran è il mio pane quotidiano, anche se ci sono stato una volta sola. Diciamo al 50%. Molti ricordi – soprattutto le sensazioni – e molta documentazione. Forse la scena che più riflette l’atmosfera che ho respirato realmente è il massacro nel paesino ceceno. Il silenzio di quello che Perez Reverte definisce il “territorio comanche”, la linea del fronte. Io l’ho sentito a Tripoli, durante la caduta di Gheddafi, o in Libano, a Qana, nella guerra del 2006. È qualcosa che ti rimane dentro, come una morsa di gelo che ti stringe il petto. La sensazione che ti fa dire, con scarsa eleganza: ma perché cavolo di motivo mi sono ficcato in questa situazione? Non saprei descriverlo meglio. Poi c’è anche altro, naturalmente: che so, la volta che la mia colonna è finita su un IED a Shindand, l’esperienza del militare a Sulmona, i ricordi di mio padre avvocato penalista, i miei primi pezzi da cronista di nera, o semplicemente collage di persone che ho conosciuto. Direi che sì, ho attinto parecchio alle mie esperienze, in alcuni casi modificandole quel minimo da renderle più letterarie, a volte stravolgendole. Anche i personaggi. E, anticipo la tua domanda, quello che riflette di più il mio carattere è Skizzo, anche se vorrei essere come Padorin.
Hai già in cantiere un altro romanzo?
Sì, ci sto lavorando da poco, rielaborando una storia che avevo scritto più di vent’ anni fa. All’epoca era agonista di kick boxing e mi proposero di fare il buttafuori per dei locali. L’humus in cui mi muovevo (erano gli anni Ottanta) non è cambiato poi tanto. Quel miscuglio di mondanità e malavita di basso rango, alta società e coatti, arrivismo e superficialità. Ho una sola difficoltà: la cronaca mi sta scavalcando (non so se a destra o sinistra, in effetti) e forse mi devo fermare ad aspettare per vedere come finisce questa storia. Anche se, come ho detto, non credo che si potrà mai scrivere la parola “fine”: avrò materiale fino alla pensione. Purtroppo.
I libri di Gianluca Ales