Quello della contemporaneità è “il tempo narrativo” che preferisci?
Credo di sì. Nel mio precedente romanzo Fai di te la notte c’era una digressione legata alle vicende del marranesimo attraverso i secoli, nel medioevo soprattutto, ma non era certamente un romanzo storico, la trama si svolgeva ai nostri giorni. Diciotto secondi prima dell’alba parla dei trentenni che faticano a diventare grandi veramente, è un ritratto, spero il più preciso possibile, di una parte di quella generazione proprio in questi anni. Scrivere un romanzo vuol dire creare un mondo, dei personaggi e una lingua. Non mi interessa costruire un mondo isolato e lontano, cerco di costruire delle storie che si parlino con quello che succede intorno.
Il tuo primo romanzo è ambientato a Pavia, la tua città, il secondo a Milano, la città dove lavori. Qual è il tuo rapporto con la provincia?
Fai di te la notte era una storia di misteri e segreti che esplodevano nel quotidiano. Storie così abitano meglio in provincia. Non so perché. Forse perché siamo abituati (basti pensare a Chabrol) a immaginare che certe trame noir si svolgano lì. Forse, semplicemente, perché per avere un segreto ci vuole qualcuno che spii, e nelle città di provincia è più difficile che i segreti rimangano tali per sempre. I protagonisti di Diciotto secondi prima dell’alba sono giovani avvocati, a cui la vita non costa fatica, che passano le serate nei locali e vivono su Facebook. Milano era una scelta naturale. Intanto è la città dove lavoro, poi è una città dove i giovani come Edo, il protagonista del romanzo, si incontrano dappertutto. Quanto a me, posso confermare che la provincia continua a essere il massimo per la qualità della vita (bicicletta, rapporti umani facili da mantenere… ogni luogo comune è vero), ma è anche un posto dove i rapporti professionali e sociali hanno un impianto violentemente feudale.
Ksenja, la protagonista di Diciotto secondi prima dell’alba, pur scomparendo quasi subito dalla storia, è tratteggiata molto bene da un punto di vista psicologico. Come ti sei documentato per descrivere la sua patologia?
Intanto che stava prendendo vita il personaggio di Ksenja, ho letto tutto quello che potevo leggere su disturbi psicologici come il suo. Solo alla fine mi sono confrontato con una psichiatra per verificare che l’impianto tenesse. Ho avuto conferma che ha un riscontro clinico anche il tratto più inquietante della sua personalità, quello di Ksenja, devastata e anestetizzata verso tutto quello che viene dall’esterno, che continua a esercitarsi e a suonare il violoncello benissimo. È possibile una cosa così: mantenere l’intimità con qualcosa che detestiamo, continuare a fare il proprio mestiere con dedizione assoluta intanto che stiamo crollando.
Nei tuoi romanzi c’è sempre molta musica, quanto ti aiuta a scrivere?
Ho scritto questo romanzo con la colonna sonora dei Coldplay e Sigur Ros, e loro sono diventati parte del testo, sono finiti dentro la storia. Allo stesso tempo questa è la musica che sente uno come Edo. È un punto di contatto che abbiamo. La musica, del resto, è forse l’unico elemento che accomuna, che mette in contatto le persone, i ragazzi soprattutto. La letteratura non ha più questo ruolo, ma temo che anche il cinema lo abbia perso.
Da “giovane scrittore” cosa ne pensi della polemica sollevata da Christian Raimo sul vuoto culturale di questo Paese?
La crisi culturale in questo paese è una verità certa e misurabile in ogni settore. Nel sottobosco poco frequentato (dai libri, ai cinema, al teatro, all’impegno civile) c’è un sacco di movimento, di intelligenza, di idee. Questa è una cosa bella, una speranza, ma, per assurdo, rende il quadro ancora più fosco, perché conferma il meccanismo di esclusione dei talenti davvero in troppe realtà.
I libri di Giorgio Scianna