
Con Giovanni Floris ci incontriamo “dietro le quinte” della libreria Feltrinelli di Via Appia a Roma in occasione della presentazione del suo primo romanzo. È un tardo pomeriggio dall’atmosfera primaverile e tra gli scaffali della libreria serpeggia curiosità circa l’esordio narrativo del noto giornalista e conduttore televisivo. La sala è gremita ma l’autore, gentilmente, ci accorda un po’ di tempo per qualche domanda. Un caffè e siamo pronti per iniziare.
Giovanni Floris: giornalista, saggista, conduttore televisivo e, ora, romanziere. Da cosa è scaturita la scintilla per addentrarsi nel sentiero del romanzo?
Difficile rispondere perché in teoria nasce molto prima la voglia di scrivere un romanzo e solo successivamente la possibilità di fare il giornalista televisivo. È un’opportunità che mi è stata data e mi ci sono tuffato. Non so se potrebbe succedere ancora perché avevo da dire solo una cosa, ed era questa. E ora sono riuscito a scriverla.
È più faticoso tenere a bada gli ospiti di “Ballarò” o scrivere un romanzo?
Decisamente gli ospiti di “Ballarò”, perché scrivendo un romanzo non ci si confronta con nessuno. Un romanzo lo scrivi e… come viene viene!. Fortunatamente all’editore è piaciuto. Nella scrittura mi sono sentito libero.
Il tuo Il confine di Bonetti racconta una storia su due piani temporali diversi: gli anni ’80 e la contemporaneità. Parafrasando Raf, cosa è rimasto di questi anni ’80?
Temevo ti riferissi a qualche filosofo! Invece Raf è il cantante, giusto? Mi è andata bene!! Probabilmente è restata in quelli della mia età e della mia generazione la voglia di riuscire a fare le cose che senti dentro. È rimasto il gusto di cercare l’opportunità.
Ranò, Bonetti, Fochetti, Gallo… i personaggi del tuo romanzo, irrequieti e problematici giovani che non possono non richiamare alla memoria le figure delineate dai primi romanzi di Brizzi e degli altri autori della generazione cannibale. Quella gioventù così “pulp” era effettivamente così “bulimica” e segnata dall’urgenza di vivere al limite?
C’era la voglia di starci dentro, di giocarsi l’opportunità che tanti davanti a noi stavano o sprecando o conquistando. Il motto di Bonetti e Ranò è: “Allora perché non io?” e forse è una delle chiavi di lettura di quella generazione.
Che adulti sono diventati quei giovani? Avverti ancora nella contemporaneità questa urgenza di trasgredire in modo sano? E se c’è in cosa la vedi? Oppure c’è soltanto una trasgressione fine a se stessa? E in un periodo di disillusione e di “recessione” valoriale, oltre che economica come quello appena trascorso, quali sono, a tuo avviso, i sentimenti che sono più a rischio di svalutazione e mercificazione?
La voglia di trasgredire di quando si è ragazzini, se è sana, diventa col tempo voglia di superare il confine. Da ragazzini si hanno orizzonti più ristretti e modelli più facili. Da grandi diventa un mettersi alla prova. I valori a rischio sono tanti ma non tanto per la mercificazione quanto per la recessione economica. Quando c’è il problema pratico le ragioni ideali molto spesso evaporano... e allora cerchiamo di risolvere prima il problema pratico, così da poter tornare serenamente a ragionare sulle questioni ideali.
Questo romanzo nomina anche diversi miti e icone degli anni ’80, dalle “Timberland” al “Moncler”, alla finale di Coppa Campioni Roma-Liverpool e il Verona dei miracoli. Qual è il ricordo più vivido di quegli anni per te?
Un ricordo forte non può non essere la finale dei mondiali di calcio del 1982. Un ricordo altrettanto forte ma in negativo è la finale di Coppa Campioni persa dalla mia Roma. Sono perlopiù ricordi legati al calcio, devo ammetterlo!
Nel libro vengono citati anche dei gruppi musicali degli anni ’80, dai Dire Straits a Nick Cave, passando per The Cure e David Byrne. Se dovessi dare una colonna sonora al suo romanzo, quale canzone o disco sceglieresti?
Nel libro si parla soprattutto dei Cure, quindi come colonna sonora sceglierei senza dubbio il loro album “Pornography” e come canzone “One Hundred Years”, contenuta nello stesso.
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