
La famiglia di pietra è la definizione giusta per rendere nelle tue pagine quel senso di distacco e follia che molti esseri umani vivono e provano ogni giorno. Come mai hai deciso di raccontare una situazione del genere e non una classica famiglia felice che fa molto politically correct?
Mi è sembrato perfettamente naturale. La “famiglia felice” è un oggetto assai raro in letteratura. Piuttosto, il meccanismo classico che ho voluto evitare è quello del ricongiungimento familiare, in cui il valore della famiglia viene riaffermato attraverso il racconto delle conseguenze della sua disgregazione. Riunita la famiglia, il racconto è finito. Nel mondo della Famiglia di pietra, invece, la famiglia è al di là di una possibile ricomposizione. È persa per sempre. Allo stesso tempo, i suoi ex membri non possono “rifarsi una vita” fuori o oltre la famiglia. La “pietrificazione” esprime metaforicamente la paralisi che deriva da questa condizione esistenziale. La famiglia è però solo uno dei luoghi in cui si manifesta la pietrificazione, anche se forse è il più doloroso. Il “senso di distacco e follia” di cui parli è una qualità fondamentale delle nostre vite, in ogni ambito. Hai usato due termini molto appropriati: distacco sta per lontananza, anaffettività, solitudine; follia è mancanza della ragione, del giusto, della verità. Siamo forzati a vagare senza obiettivo e senza compagni di strada. Questa mi sembra, in assoluto, una corretta visione dell’esistenza (non siamo forse sempre soli? non siamo forse sempre abissalmente lontani da una meta?), ma non si deve dimenticare che essa non preclude la dimensione del gioco, anzi: è la consapevolezza del dramma che la rende possibile. Il gioco è la momentanea istituzione di uno spazio in cui i movimenti sono regolati in vista di un fine. È un mondo fittizio con un dio artificiale, che nasce quando i giocatori credono nelle regole. Senza il gioco e la distrazione che ne deriva, la vita non ha alcun interesse. Il contrario del gioco non è la realtà, che anzi nasce come immedesimazione nelle sue regole, ma il suicidio. D’altra parte, neppure un gioco a cui si è costretti a giocare, sulle cui regole non abbiamo alcuna influenza, ha alcun interesse. Quando poi un gioco estraneo cerca di imporsi come “realtà”, questo fa proprio infuriare. Ecco, noi viviamo compressi tra il nocciolo di una metafisica che ci dice che nulla ha senso e varie stratificazioni di potere che impongono o insinuano la falsa realtà di giochi che non hanno nulla di divertente. Questo è ciò che intendo per pietrificazione.
Navigando ho scoperto che sei uno dei fondatori del SIC (scrittura industriale collettiva), ci parli del tuo progetto e della necessità di affiancare la scrittura, che di solito è qualcosa che scaturisce dalla nostra fantasia, ad un termine (industriale) che nell'ambiente culturale spesso viene utilizzato in tono dispregiativo?
La SIC è un metodo di scrittura collettiva, sul cui funzionamento rimando ai materiali sul nostro sito e a una recenteindagine di Finzioni Magazine. L’aggettivo “industriale” nel nome ha la funzione di distinguere la nostra proposta di scrittura collettiva dal suo corrispettivo non industriale, ossia “artigianale”. Ciò che stiamo cercando di dimostrare, in primo luogo attraverso la scrittura di un romanzo a duecento mani che si sta concludendo proprio in questi giorni, è che la produzione su vasta scala di narrativa collettiva di qualità è possibile, a patto che i gruppi di scrittura passino da un modello organizzativo informale a uno più strutturato, con regole precise pensate in funzione delle caratteristiche peculiari della narrativa. Questa impostazione, ci rendiamo conto, porta con sé un’ambiguità: la rivoluzione industriale non fu certo un mero aggiornamento tecnico dei processi di produzione, ma un vasto processo di asservimento di masse contadine spossessate, inurbate e ridotte in stato di nuova schiavitù nelle fabbriche. Veniamo, a volte, accusati di voler applicare le logiche alienanti del lavoro di fabbrica a uno dei pochi ambiti che il capitalismo non ha potuto, finora, organizzare direttamente, quello della creazione artistica. A questo, rispondo che la manipolazione indiretta dell’odierna industria culturale non è meno pervasiva: lo scrittore, solo nella sua cameretta, è già da sempre assediato dai fantasmi della necessità di trasformare il suo scritto in un prodotto. Non sarà certo il fatto di associarsi con altri scrittori a renderlo più condizionabile. Anzi, forse troverà nel confronto diretto con i suoi pari un’occasione per meglio comprendere e affrontare i suoi condizionamenti. Chi sostiene che vi è contraddizione tra l’industria e la fantasia, in sintesi, sbaglia proprio per mancanza di fantasia. Eugenio Montale, nel suo discorso per il Nobel, parlò di una poesia che “rifiuta con orrore il termine di produzione”. Aveva ragione, se intendeva che il poeta deve rifiutare con orrore le imposizioni cieche dell’economia di mercato. Aveva torto, se intendeva che il poeta può salvarsi erigendo un muro tra sé e il mondo. Solo nella sua cameretta, troverà il mondo tutto intero ad aspettarlo, beffardamente camuffato da “interiorità”.
Firenze non è solo uno sterile scenario, la città nella quale accadono i fatti che descrivi nel romanzo. Firenze è una vera protagonista della storia, senza la descrizione del borgo toscano la vicenda forse ne uscirebbe depauperata, stilizzata ad un sottile resoconto di eventi concatenati tra loro. Per creare una descrizione così vivida bisogna amare quel luogo, viverlo in modo diverso, vedere cose che gli altri abitanti non vedono. Come sei riuscito a fare ciò?
Premesso che non sono affatto sicuro di esserci riuscito, né di amare particolarmente Firenze, posso descrivere il mio approccio. Firenze, come tutti i luoghi benedetti dalle attenzioni del turismo di massa, è una città scissa tra l’immagine estatica che ne hanno i visitatori e la visione cinica dei suoi abitanti. Entrambi gli sguardi sono veritieri (sì, Firenze è bella e sì, Firenze fa schifo), ma le espressioni consuete delle sue qualità e dei suoi difetti sono di dubbia utilità letteraria. In un romanzo, non si possono scrivere frasi come: “Il Cupolone era nascosto dallo smog”. Io non ho fatto altro che cercare nella mia esperienza personale, e inventare, quando l’esperienza non era d’aiuto, gli elementi più utili per riprodurre il punto di vista di abitanti e non.
Stacroce è il personaggio che subito mi è risultato simpatico. Cinico, volgare, chiuso. La Pulcinelli invece è il suo grillo parlante. Non hai avuto paura di cadere nel clichè del poliziotto buono e di quello cattivo? Ho notato (essendo napoletano) che i loro cognomi hanno un’assonanza partenopea, la cosa è voluta o ti è capitato?
Dal mio punto di vista, sono entrambi cattivi. La vice Pulcinelli appare più “umana” solo perché meno fredda e calcolatrice e perché si lascia affascinare più rapidamente dalla ribellione stupida, scomposta, ma (nelle mie intenzioni) moralmente esemplare, di Vauro. Televisione, cinema, giornali e libri sono pieni di poliziotti buoni. Questo non corrisponde alla mia esperienza personale. Sono stati dei agenti in borghese che, quando avevo solo vent’anni, mi hanno schiaffeggiato in pubblico solo perché partecipavo a una pacifica manifestazione studentesca. Per non parlare di ciò che ho visto con i miei occhi a Genova nel 2001. Mi si dirà che generalizzo, ma io faccio proprio il contrario: particolarizzo. Mi si mostri investigatore “buono”: finora li ho visti sono nelle fiction. Per quanto riguarda il partenopeo: no, è solo un caso. Ho scelto Stacroce perché mi richiamava alla mente, in modo alquanto volgare, la sua natura di inquisitore. Pulcinelli, invece, perché è buffo, ridicolo.
Ho letto che hai scritto diversi racconti ma questa è la tua prima “opera lunga”, quali sono state le difficoltà nel cimentarti nella stesura di un romanzo?
Le difficoltà sono quelle note a chiunque abbia mai scritto un romanzo: la durezza dell’impegno, la paura di non arrivare da nessuna parte, la noia delle correzioni e delle riscritture, il senso di inadeguatezza di fronte all’enormità delle questioni che nascono in ogni riga, la coscienza della propria piccolezza di fronte ai modelli, ai classici… E così via. La difficoltà maggiore è stata costruire una trama. Quando cominciai, forse proprio perché fino ad allora avevo scritto solo racconti, sottovalutai gravemente la difficoltà di costruire una storia. Strano, perché i romanzi sono appunto questo, no? Storie. Eppure, una storia implica una morale, va a parare da qualche parte, significa qualcosa. Io avevo solo un’idea: una ragazza morta. Non si sa se suicida o se è stata uccisa. È stata la mia ossessione per anni: “Gloria Conforti si è uccisa? Perché? O è stata ammazzata? Da chi? Perché?”. Non c’era verso di cavarne una trama. Il problema, per fortuna, si è risolto da solo: a forza di scrivere, provare tutte le direzioni, interrogarmi, il libro poco a poco ha preso forma, finché non si è imposto con una storia tutta sua, il cui centro non era più l’indagine per sulla morte di una persona, ma le reazioni dei vivi.
I libri di Gregorio Magini