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Intervista a Hanne Ørstavik

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Nata a Tana, nella contea di Finnmark, e trasferitasi a Oslo all’età di sedici anni, Hanne Ørstavik è una delle scrittrici norvegesi più apprezzate e tradotte dell’epoca contemporanea. Oggi vive in Italia, a Milano, e noi di Mangialibri l’abbiamo incontrata al Salone del libro di Torino, in occasione del quale l’autrice ha presentato il suo ultimo, meraviglioso romanzo. Curiosa ed emotivamente molto intelligente, Hanne ci ha colpito per il suo modo di concepire la letteratura e per il modo in cui riversa tutta sé stessa nelle storie che scrive. Una chiacchierata interessantissima, una scrittrice brillante.




Nel corso della tua carriera hai scritto di temi diversi, analizzando personaggi anche molto distanti tra loro. Ciò che salta all’occhio della tua intera produzione letteraria, però, è l’intimità viscerale che infondi alla narrazione. È questo ciò vuoi racontare? Il mondo interiore di ognuno che da soggettivo si fa universale?
Sinceramente non penso che quello che faccio sia raccontare storie. Scrivere per me è esplorare, è investigare. La narrazione non mi interessa, la costruzione di un romanzo, per come la vedo io, è l’esplorazione di una tematica. È lì che si svolge tutto. Ma trovo molto bello e interessante ciò che chiedi. Insomma, qual è il dentro? Qual è il fuori? E come vanno insieme le due cose? Come puoi sapere qual è a realtà? Ciò che è dentro e ciò che è fuori si mescolano in continuazione. Sono entità fluide. Il mondo interiore è flessibile come il mondo esteriore. Si mischiano, capisci? Siamo abituati a pensare che la realtà sia qualcosa di palpabile, visibile, facile, ma in effetti non è così.

Quindi parti da qualcosa che c’è dentro e che poi va a fondersi con ciò che c’è fuori?
Sì. Credo proprio di sì.

Mi pare di capire che vedi la narrativa come un fossile. Qualcosa che c’era già e che, scavando, vai a scoprire. È così? O è qualcosa che crei tu?
In realtà, direi nessuna delle due. Per me la costruzione di un romanzo è l’investigazione di cui ti parlavo. Quando comincio a scrivere mi pongo davanti una problematica. Per Amore, ad esempio, la questione di cui volevo occuparmi era, appunto, l’amore. Mi sono chiesta “Cos’è l’amore? Come possiamo sapere se c’è?”. Ecco, ho cominciato a scrivere questo romanzo proprio per investigare su questa tematica.

Parliamo di Amore. Con i pensieri uno dei tuoi personaggi, nella lunga notte in cui è ambientata la storia, torna all’altro in continuazione. Come se ne fosse attaccato. Dipendente. Credi che l’amore sia dipendenza? O credi piuttosto che la dipendenza venga dopo?
Non saprei definire l’amore. La grande sfida scrivendo il romanzo per me è stata viverlo, questo sentimento. Sentirlo, e sentirlo in modi diversi. Da una parte con un personaggio freddo, distaccato. Dall’altra con un personaggio che lo avverte in maniera opposta. Si tratta di due polarità, ecco. C’è dipendenza in amore? Quella per me viene dopo, ma sì.

Per Amore hai deciso di parlare del rapporto madre-figlio. Un legame ancestrale. Uno dei più forti che ci siano. Perché?
Ciò che mi ha spinto a investigare sull’amore è stato aver avuto una figlia. Ventitré anni fa ero lì, con lei piccolissima, e mi sono chiesta “come posso essere sicura che lei sappia che la amo?” L’esperienza di avere avuto una bambina si è riversata su di me in modo totale. Mi ponevo un sacco di domande sull’infanzia. Domande che partivano dalla sua nascita, ma che poi si sono proiettate sulla mia, di infanzia.

Quindi nel romanzo ti immedesimi nelle due voci narranti? A parlare sono la Hanne-bambina e la Hanne-adulta?
Sì, è così. Il romanzo, sotto questo punto di vista, è scritto in modo concreto. Ma vedi, tutto è iniziato perché nella mia testa vedevo una casa. Una casa come quella in cui sono cresciuta. Nell’estremo Nord, in Norvegia, dove i tedeschi, ritirandosi alla fine della Seconda Guerra Mondiale, nel ’44, hanno bruciato tutto per rallentare i russi che liberavano il Paese. Oggi non c’è niente di antico, lì. È tutto nuovo. Niente bellezza, niente storia. È tutto prefabbricato. Ecco, io sono cresciuta in una casa così. E per il libro ho visto una casa così. Più la vedevo, più avevo l’impressione che ci fosse qualcuno lì dentro che aveva bisogno di aiuto. “Devo entrare”, mi dicevo, e così ho fatto. Ma l’ho fatto come le telecamere negli horror, senza corpo, seguivo i personaggi, esploravo le stanze. Perché per me stessa era una cosa molto spaventosa, entrare in quella casa. Tant’è che tutto il libro è scritto sul pericolo.

In effetti, leggendo Amore, ho avvertito una tensione di sottofondo. Una minaccia silenziosa che pregna le pagine dall’inizio alla fine. Non parlo di pericoli concreti, è come se ci fosse una nebbia che rimanda a un sentimento continuo di pericolo. Dunque è qualcosa che hai voluto costruire. Ma per scopi narrativi o perché la sentivi tu stessa?
Perché la sentivo, certo. Io stessa ero spaventata, non avevo idea di cosa sarebbe successo. “Cosa accadrà quando aprirò questa porta?”, mi domandavo. “Cosa troverò?”.

In Amore non c’è né un passato, né un futuro. La storia si svolge nell’arco di una notte, ma non ci sono contesti. Contesti temporali o spaziali. E, soprattutto, niente che ti faccia pensare alla prospettiva di un futuro. Questo mi ha ricordato la tragedia. E mi ha fatto pensare a un taglio su una tela. Uno squarcio. Qualcosa da cui si può solo sbirciare. Perché non hai voluto parlare d’altro se non del presente?
Perché non volevo spiegare. Volevo aprire i posti che vedevo. E basta. Esplorare la mancanza di amore e la paura di non riceverlo. Ho solo seguito i miei personaggi, chiedendomi sempre “cos’è l’amore?”. Quand’ero piccola i miei parlavano sempre di questo sentimento. Amore, amore, amore. Ma non era facile sentirlo, avvertirlo. Ecco, questo libro è anche un pugno a questo amore sempre detto e mai manifestato concretamente.

Dunque volevi parlare di qualcosa di astratto ma attraverso atti concreti?
Volevo farci tornare al concreto dell’amore. Perché secondo me l’amore dev’essere concreto.

Il personaggio della madre è molto sfaccettato. In lei ho scorto amarezza, disillusione. E a volte pare quasi che provi sentimenti ostili per il figlio. Perché da una parte l’amore incondizionato per il figlio e dall’altra questa sorta di indifferenza, quasi ostilità? C’è un’ambivalenza?
Per me era fondamentale parlare di Vibeke come di un personaggio di cui il lettore non avesse un’idea unicamente negativa. Non volevo che sembrasse brutale, cattiva. Volevo anzi che il lettore potesse empatizzare con lei. Per me è facile identificarmi in Vibeke.

Qual è la tua idea di letteratura? Dev’essere qualcosa che intrattiene e basta o deve avere uno scopo sociale?
Penso che abbiamo bisogno di ogni tipo di letteratura. Ma quella che interessa a me, e non vuol dire che dovrebbe essere tutta così, ovviamente, è quella che ha a che fare profondamente con la lingua, con la sperimentazione. Quella che non sa dove va, che non è prevedibile. Aprimi un posto dove possa esplorare qualcosa. Qualcosa in cui possa capire ciò che prima non sapevo.

E per quello che riguarda lo stile?
In Norvegia non parliamo molto di stile e questa differenza con l’Italia è molto interessante. Qui ne parlate molto. Da noi non è importante. Ognuno ha il proprio, sì, ma lo stile è solo la superficie. È qualcosa che sta fuori ciò che importa davvero. Una frase per me è scritta in un modo perché per esprimere quel concetto è giusto che sia così. Lo sento corporalmente.

I LIBRI DI HANNE ØRSTAVIK