Salta al contenuto principale

Intervista a Ivan Polidoro

Ivan Polidoro
Articolo di
Ivan Polidoro, napoletano d’origine ma romano d’adozione, non è nuovo alla scrittura: seppur esordiente, avendo pubblicato da poco la sua opera prima per 66th2ndhand, ha alle spalle una vasta esperienza nell’ambito della sceneggiatura, sia cinematografica che teatrale. L’ho incontrato al Salone del libro dove abbiamo potuto fare una simpatica chiacchierata sulla sua storia e sulle storie che ama raccontare.
Ivan , ti sei sempre dedicato a cinema e teatro, lavorando con prestigiosi registi e occupandoti di recitazione e sceneggiatura. Come sei approdato alla stesura di un romanzo, era un desiderio che ti accompagnava da tempo o è nato da un’occasione particolare?
Ho sempre scritto fin quando facevo l’accademia Silvio D’Amico: mi riunivo con i miei amici e scrivevamo pezzi per il teatro, da mettere in scena insieme. Per quanto riguarda il romanzo, diciamo che avevo tante storie che mi frullavano in testa già da un po’, finchè non ho deciso di metterle su carta. Per caso poi è arrivato l’incontro con Leonardo Luccone di Oblique studio, con il concorso letterario 8x8: gli è piaciuto molto il mio modo di scrivere e ha deciso di occuparsi del mio lavoro, poi è arrivata la 66th2ndhand e ecco Le coincidenze. Forse lo stesso romanzo è nato da una coincidenza…

 


La tua dimestichezza con il cinema è piuttosto evidente leggendo il romanzo: sei molto preciso nelle descrizioni di luoghi  e personaggi, quasi fossero scene di un film. Sicuramente sarà l’eredità del lavoro da te svolto finora: vedi una continuità tra la tua attività di sceneggiatore e quella di scrittore? Che differenze ci sono, se ci sono, tra i due tipi di scrittura?
Probabilmente sì, ci sono delle differenze ma praticamente no. Diciamo che la differenza più evidente è a livello tecnico: nelle sceneggiature devi scrivere le didascalie per ciò che non scrivi qui no. Mi fa piacere comunque che hai notato quanto il libro sia “filmico” e “cinematografico”. Fondamentalmente, infatti, questo romanzo è una grande sceneggiatura, un personaggio lo lasci al terzo capitolo per ritrovarlo al sesto magari, come un grande film dove si incrociano tante storie diverse anche di striscio o di passaggio. Ho cercato di scrivere il romanzo in questo modo perché il lettore riconoscesse una storia e riuscisse veramente a vederla.

 

Hai detto di aver scritto questo romanzo “ascoltando la strada”. Cosa significa in pratica, che sono tutte storie vere?
No, non lo sono ma potrebbero esserlo. Alcune le ho prese veramente dalla strada, ascoltando le persone che chiaccheravano in metropolitana, leggendole su un giornale, sentendo i racconti di un amico, altre sono di fantasia però hanno agganci col reale molto forti. La cosa buffa è che dopo un paio di giorni da quando le ho scritte ne ho ritrovate altre molto simili nella realtà.

 

Nel tuo libro c’è una figura molto interessante, quella di Giacomo, figlio di genitori sfortunati, che scopre la fede e diventa prete, occupandosi dei ragazzi della periferia napoletana. Un personaggio simile a tanti preti coraggio del sud: ti sei ispirato a qualcuno in particolare?
Mi piace l’idea di un ragazzo prete nato in periferia, con una storia particolare alle spalle, che decide di dedicarsi a un’attività impegnativa ed encomiabile. La sua famiglia è semidisastrata, suo padre è rimasto paralizzato da un incidente sul lavoro e sua madre cerca di tirare avanti come può: ma nonostante la difficoltà sono personaggi che divertono, nella loro goffa maniera di trovare la via di uscita dalla disperazione. Nel romanzo c’è una levità di fondo nel raccontare come, anche nel momento più difficile si trova la via, il do dell’Aikido, come ho imparato da un mio caro amico e come racconto nel libro nella figura del maestro. Nel parlare di Giacomo volevo raccontare una scelta e il modo di portarla avanti, non mi interessano i dubbi sulla fede o comunque su questo aspetto non vado a fondo, lo lascio al lettore: lui continua nella sua strada, forse trovata proprio grazie a una coincidenza.


Ecco, proprio di questa costante ironia ti volevo parlare ora. Ho letti che in molti la riconducono a una sorta di tuo debito nei confronti della commedia napoletana, di De Filippo in particolare: è così o si tratta di un elemento della tua personalità?
È più un lato che contraddistingue il mio carattere. Prima della pubblicazione del romanzo, alcuni capitoli sono stati anticipati su Repubblica: tra questi, quello che racconta la storia di Gaetano Pacifico, figlio di pasticceri, assaggiatore di famiglia, goloso e grasso che però nutre ambizioni da ciclista, forse la storia più divertente del romanzo, dove emerge maggiormente questo lato di me. È grazie all’ironia che riesco a descrivere le cose drammatiche con distacco, a divertirmi e spero a far divertire.


Milano, Torino e Napoli sono le città del romanzo. Cosa rappresentano invece per Ivan Polidoro?
La città dove vivo adesso è Roma, a Napoli ci sono nato e Milano e Torino le ho conosciute durante i miei vari spostamenti per le tournèe e mi ci sono molto affezionato. In entrambe queste città si respira una forte cultura, mi sono sempre trovato molto bene. Le storie che volevo raccontare erano proprio queste, ambientate in un hinterland che per vari motivi ho avuto modo di incontrare e approfondire. Ho conosciuto tante persone che lavorano o hanno lavorato in periferia: pensa che coincidenza, arrivato qui sono stato ai giardini di Porta Susa e ho parlato con delle persone che lavoravano alla Fiat e che mi hanno raccontato storie simili a quelle che io stesso racconto, solite sensazioni, descrizioni. Tutto fa parte di uno spaccato che ho sempre voluto raccontare, come la vicenda della Olivetti. Ho voluto creare un romanzo in più luoghi per metterli a confronto e per creare atmosfere diverse e farle interagire tra loro.

 

In tutte le storie che racconti c’è di mezzo lo sport, chi lo pratica professionalmente, chi vorrebbe ma non ci riesce, chi lo usa come valvola di sfogo, chi invece per coinvolgere le persone. Com’è nata questa scelta?
Ho approfittato del tema dello sport per riunire varie idee che mi frullavano in testa. Nel romanzo incontriamo sia lo sportivo vero e proprio e sia chi vi si dedica marginalmente. C’è il ragazzo che vuol fare il ciclista senza aver la minima predisposizione o la bambina ginnasta che cerca l’equilibrio sull’asta mentre lo cerca anche per sé stessa e per la sua famiglia, approfitto di una metafora per raccontare la sua storia.


Nella parte finale ci sono una sorta di titoli di coda in cui presenti i vari personaggi e ne dai una tua definizione, a volte divertentissima. L’ennesimo rimando filmico o una sorta di guida per tirare le fila dei vari episodi raccontati e dei personaggi che vi compaiono?
Volevo fare una “bibbia dei personaggi”, ovvero, come sa bene chi fa cinema, un elenco di ciascuno con connotazioni precise. È una cosa che sono abituato a fare da sempre e quindi mi divertiva mettere un po’ di me in questo romanzo: inoltre grazie alla “bibbia”, chi si fosse perso nella lettura ritrova il filo del racconto.

I libri di Ivan Polidoro