Al mio amato Luigi Magni non sarebbe sfuggita l’ironia della situazione: un popolano romano che la sua passione per i libri conduce proprio nella tana dell’ex dominatore, Palazzo Farnese, la quasi inaccessibile, meravigliosa e antica ambasciata di Francia. Sotto l’occhio impassibile e severo di dipinti, lampadari, stucchi e arazzi, seduto su un liso divano a fiori vecchio almeno di un secolo a sorseggiare un caffè servito da camerieri in marsina, sono palesemente a disagio. La cosa non sfugge al sornione signore francese che siede accanto a me, il mitico cantastorie del Male Jean-Christophe Grangé. Mentre sorbisce il suo caffè guardandomi in tralice, accavalla le gambe sfoggiando scarpe costose e calzini impeccabili. E risponde alle mie domande godendosi la mia affannata exit strategy tra i due fuochi – ugualmente temuti, ugualmente letali - della grandeur e del bon ton.
Segreti che tornano alla luce da un passato oscuro, persone che non sono quello che sembrano: se un critico o un lettore fa notare che questi sono gli ingredienti tipici di un romanzo di Grangé sei contento o ti offendi?
Né l’uno né l’altro. È evidente che tali ingredienti riconoscibili ci sono, ma più invecchio e più mi rendo conto che c’è qualcosa di profondo che mi spinge a voler raccontare una storia piuttosto che un’altra. Qualcosa dentro di me: la mia ricerca ossessiva attorno ai temi della memoria, dell’identità, del bene e del male deriva, me ne rendo conto, dalle mie angosce insolute. Delle quali evidentemente voglio parlare, magari in un’ottica terapeutica e catartica. Ho vissuto ben presto con i miei genitori l’esperienza della morte e della malattia mentale, e questo ha lasciato in me dei segni indelebili, non tanto in quanto sofferenze ma in quanto eredità: mi rendo conto di assomigliare più di quanto vorrei a mio padre, le mie ossessioni erano anche un po’ le sue. E a proposito di psichiatria, sono rimasto profondamente colpito dalla mia esperienza personale: quando ho sofferto di una grave depressione poche semplici pillole sono bastate a farmi ritrovare la persona che ero: non più triste, non più allegra, esattamente quella che ero! Questo mi ha aperto gli occhi sulla potenzialità della psichiatria e sui misteri della mente umana.
In Amnesia la tua galleria di poliziotti si arricchisce di una protagonista femminile tormentata...
Se volessimo analizzare tutti i miei poliziotti ci sarebbe da riempire un manicomio! Potremmo dire forse che la cosa più intrigante per me è creare un personaggio con delle ferite, una persona tormentata, non una macchina per fare indagini. Un poliziotto per piacermi deve avere qualcosa di tenebroso. Perché un poliziotto è un cacciatore, e quindi deve conoscere la sua preda, deve conoscere il male, deve brillare di una luce oscura, in fondo deve assomigliare a colui che sta inseguendo. E poi mi piace creare sempre nuovi personaggi, non mi piacciono le serie, voglio ogni volta nuove storie, nuovi traumi,nuove ferite, voglio ripartire da zero. Che poi diciamocelo: il poliziotto di una serie vive una vita impossibile, con indagini incredibili tutte concentrate, roba che non capita nemmeno nella vita di 100 poliziotti.
Il cattivo di Amnesia è particolarmente sgradevole, ma si scopre la profondità della sua malvagità solo nelle ultime 4-5 pagine (dopo più di 700!). Si poteva dargli più spazio, forse?
Beh, forse effettivamente questo cattivo che costruisce a distanza tutta la storia del romanzo avrebbe avuto profondità da scandagliare, peccato si riveli solo alla fine. A ben vedere, i miei cattivi li svelo ai lettori sin dalle prime pagine o soltanto nel finale, ora che mi ci fai pensare. Però è un personaggio che va visto come un fantasma che aleggia sulle vicende sin dall’inizio, come un dio che dall'Olimpo guida l’azione. Fino allo scontro finale.
Cinema e letteratura hanno sempre avuto un rapporto difficile: tu che frequenti con grande successo entrambi i mondi, ci puoi svelare il segreto di tanta serenità?
La mia fortuna è stata esser stato cambiato subito dall’ambiente cinematografico, dal suo caos e dalla sua complessità. Ho dovuto subito scegliere tra lasciar perdere le riduzioni cinematografiche dei miei romanzi - con le loro inevitabili differenze con i libri – o accettare la sfida per rivolgermi a un pubblico più vasto. Parliamoci chiaro: un libro di enorme successo raggiunge 300.000 persone, un film 3 milioni, e io voglio raccontare le mie storie a più gente possibile. Si vede anche roba grottesca o comica al cinema, lo so benissimo, ma non bisogna essere snob. Col cinema io ci ho fatto bei soldi, e non sono abituato a sputare nel piatto in cui mangio.
Uno scrittore assomiglia un po’ a un pittore: ti piace più il bianco o il nero?
Il bianco e nero. E non vuol dire che io ingenuamente pensi che bene e male siano separati. Ma per dipingere e scrivere servono i contrasti.
I libri di Jean-Christophe Grangé