
I francesi parlano rapidamente e a bassa voce, forse per educazione, chi lo sa. Jean Echenoz (uno che ha vinto un Premio Goncourt, un Prix Médicis e un International IMPAC Dublin Literary Award, mica roba da ridere) non fa eccezione, quindi per superare la difficoltà iniziale sposto la sedia sempre più vicina a lui: spero non pensi che sia una avance... Respiro profondamente, faccio appello a tutta la professionalità possibile e ricomincio con le domande.
Come nasce Correre?
Posso dire che tutto è cominciato dal nome, da Emil Zátopek: cercavo una personalità sportiva di cui parlare perché lo sport è un ambito di cui non sapevo niente ed interessante per me è sempre avvicinarmi a qualcosa che non conosco affatto. Poi facendo un lavoro di ricerca su di lui, studiando la sua storia ho capito che con i romanzi, con le opere di finzione (anche se questa non è mai pura) non mi ero mai misurato con il contesto sociopolitico della storia, ed ho riscoperto questa dimensione, ritrovando la voglia di accorgermi che potevo parlare di un’epoca e toccare connotati politici ed etici. Parlare di un atleta ha comportato uno stile completamente diverso, prima avevo scritto di Ravel, il soggetto determina la scrittura per cui possiamo dire che è il protagonista di questo libro che ha trovato lo scrittore, e non viceversa.
Zátopek ha anche in qualche modo cambiato il tuo stile?
Anche lo stile è stata una scoperta avvenuta durante la stesura del libro. Studiando il personaggio di Zátopek mi sono accorto che non esistono biografie, non ci sono racconti su di lui e questo è molto strano dal momento che è stato ed è ancora un punto di riferimento per migliaia di atleti e non solo. Ho cercato sui giornali dell’epoca e ho trovato una serie di elementi eterogenei che ho utilizzato per poter iniziare a scrivere il libro, e proprio questa eterogeneicità mi ha lasciato la libertà di poter fondere realtà e finzione.
Sei uno scrittore disciplinato? La tua scrittura limpida è fonte di cura estrema, di lavoro sulla parola o è un dono naturale?
Per me la scrittura è una cosa quotidiana, regolare, fisica e molto stancante - e credo che sia più faticosa dell’attività sportiva. Scrivendo questo libro non ho pensato ad una metafora specifica del mio lavoro ma posso parlare di disciplina, di perseveranza, e credo che alla fine il mio lavoro possa essere paragonato a quello di un fondista. Il mio stile però è frutto di un costante lavoro di cesello e rifinitura.
Come procedi nella scrittura?
All’inizio della mia carriera facevo su dei quaderni più stesure di uno stesso libro, ma era prima dell’avvento del computer, oggi conservo comunque differenti versioni successive in vari file. Comunque credo che con il computer non si guadagni abbastanza tempo rispetto a quanto se ne perde.
Perché l'attività umana della corsa te ha influenzato tanti scrittori e cineasti?
All’inizio quand’è nato il progetto di questo libro volevo fare qualcosa su una leggenda dello sport, avevo pensato al ciclismo ma è uno sport troppo tecnico, poi all’automobilismo ma è ancora più tecnico, poi ho trovato interessante l’idea di dedicarmi ad uno sport in cui non fossero coinvolti dei macchinari, come il nuoto o la corsa - che trovo molto più cinematografici. A quel punto ho scelto il titolo e non ho avuto più dubbi. Nella corsa c’è una dimensione un po’ tragica che ha stimolato il mio desiderio di scrivere, forse per l’espressione dello sforzo, della sofferenza che in altri sport non è così evidente. Nei vari filmati che riguardano Zátopek si ha proprio l’impressione di una sofferenza esibita quasi istericamente. Se guardiamo oggi i grandi atleti etiopi sono splendidi: esibiscono un’espressione di agilità, di naturalezza, in lui invece c’è l’incarnazione del dolore. Eppure nessuno ha mai accumulato risultati come lui.
Secondo te Zátopek correva per sfuggire al regime?
Credo che qualunque sia il regime - peggio ancora se è autoritario - ci sia sempre uno sfruttamento del corpo dell’atleta da parte della politica. Non penso viceversa che lo sport possa rappresentare una forma di lotta: sì, anche a me vengono in mente le Olimpiadi del '68 dove Tommie Smith e John Carlos mostrarono il pugno chiuso durante l'inno nazionale Usa in segno di orgoglio razziale, ma Zátopek non fuggiva, semplicemente correva e la corsa era un modo per esorcizzare il totalitarismo, non per combatterlo.
Lasciamo Zátopek e facciamo un passo indietro, torniamo a Ravel...
Quello su Ravel è stato uno dei due libri miei più difficili da scrivere, volevo essere il
più possibile fedele al personaggio ma nello stesso tempo mantenere la mia libertà di romanziere: mantenere l’equilibrio tra queste due cose è sempre assai arduo.
E ora invece un passo avanti: prossimo lavoro?
Concludere questa trilogia di romanzi biografici, penso che il prossimo sarà dedicato alla figura di uno scienziato. E queste tre figure che ho scelto nel campo dell’arte, dello sport e della scienza hanno ognuna qualcosa dell’altra, a pensarci bene.
I libri di Jean Echenoz