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Intervista a Jonathan Coe

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Sguardo glaciale ma sorriso sulle labbra, tono di voce bassa e pettinatura da bravo ragazzo, Jonathan Coe ha frequentato ottime scuole, ama il jazz, è inglese. E si vede. Ma dietro alla forma impeccabile si nasconde la sostanza di uno degli scrittori più importanti degli ultimi decenni. Con un rapporto particolare con l’Italia.




La pioggia prima che cada è un libro per certi versi molto diverso da quelli che ti hanno reso famoso: un cambio di direzione?
Diverso, trovi? Tutto sommato penso che si inserisca nel solco de La casa del sonno, che siano libri simili: addirittura qui c’è una scena che è un vero e proprio remake di una scena di quel romanzo, quando i due amanti sono sulla spiaggia con questa bambina che malgrado non sia loro figlia loro trattano con tale affetto che si crea un momento davvero speciale, intenso. Le affinità quindi sono molte, anzi a ben vedere le uniche differenze stanno nella teatralità della vicenda più che nel tema. Del tutto diversi gli altri miei libri, su questo sono d’accordo: lì ho utilizzato registri diversi, mi sono divertito a strattonare il lettore da commedia a tragedia. Stavolta il tono è più uniforme, malinconico, e questo ha dato al libro più profondità.

Il romanzo è uscito prima in Italia che nel tuo Paese. Un segno del rapporto speciale che da sempre hai con l’Italia?
La decisione è dell’editore Feltrinelli, non mia. Ma certo il fatto che abbiano voluto pubblicarlo più velocemente possibile però è segno dell’affetto enorme che i lettori italiani hanno nei miei confronti. Un affetto che per me è molto importante, come un nutrimento.

Il fatto che i giornalisti italiani ti facciano tante domande sulla storia d’amore omosessuale al centro de La pioggia prima che cada più ti sorprende o più ti infastidisce?
Sorprende, senza dubbio. E mi sorprende anche che le posizioni in Italia sull’argomento omosessualità siano così distanti da quelle in Gran Bretagna: questo credo a causa dell’influenza profonda che la Chiesa cattolica qui da voi ha sull’opinione pubblica, un’influenza che nel mio Paese è del tutto assente. Ma attenzione, non miravo a suscitare alcuna polemica in Italia, semplicemente non ci avevo pensato. Quando scrivo non mi preoccupo mai dell’accoglienza che un mio libro potrà avere o delle reazioni che potrebbe suscitare. Se lo fai è controproducente, ti distrai troppo.

Non sei stanco di rispondere a domande sulla Thatcher o su Blair? Sembra che la critica a volte ti consideri una sorta di storico del ’900 inglese più che uno che racconta storie di persone...
Sì, mi sono scocciato. Soprattutto di parlare di Margaret Thatcher, è roba di tanto tempo fa. Mi incuriosisce quanto sia ancora una figura potente nell’immaginario collettivo italiano, perché invece da noi in Gran Bretagna è presssoché dimenticata. Ci sono scrittori che erigono una sorta di muro tra loro stessi e ciò che la critica dice di loro. Io questo non lo faccio, e so in che termini si discute dei miei libri. Ma resta comunque una sorta di rumore di fondo che non influenza certo la scelta della trama. La pioggia prima che cada l’ho scritto perché avevo voglia di qualcosa di più intimo, un po’ come un compositore di sinfonie che un bel giorno sente il bisogno di scrivere un quartetto d’archi. Per qualche tempo una parte di me ha detto: finalmente scrivo qualcosa che non verrà interpretato come politico. Mi sbagliavo. Ho sottovalutato il pubblico italiano (ride, ndr).

È vero che non ami le tue biografie di James Stewart e Humphrey Bogart?
Non amarle è una parola grossa. Diciamo che non le considero del tutto dei miei libri, c’è poco di personale dentro. A proposito, eccoci ancora una volta davanti alla diversa accoglienza data a miei libri in Italia rispetto al resto del mondo. Qui queste biografie si vendono, altrove sono fuori catalogo da anni e nessuno ne sente la mancanza.

Perché invece hai deciso di dedicare un libro a Brian Stanley Johnson?
lo considero il più importante di tutti i miei libri. Ho avuto con questo scrittore inglese un rapporto molto lungo, che come tutti i rapporti lunghi è cambiato nel tempo. Non ho mai conosciuto Brian Stanley Johnson di persona, è morto quando avevo 12 anni, ma dentro ai suoi romanzi ci sono cose splendide, che mi hanno dato tanto. Eppure è stato uno scrittore fallito, il suo sogno di rivoluzionare la letteratura inglese è svanito nel vuoto. Speriamo non svanisca nel vuoto anche la mia speranza di fare in modo che non sia dimenticato.


I libri di Jonathan Coe