
È esile come un giunco ma ti dà un’impressione di grande forza e calma interiore, la regista e sceneggiatrice francese Laetitia Colombani. Come le donne protagoniste del suo romanzo d’esordio, un bestseller annunciato che è venuta a presentare a Roma. La incontro nella hall di un elegante albergo del centro e sin da subito si crea un’atmosfera rilassata e piacevole.
Leggendo il tuo La treccia non si può fare a meno di chiedersi: come nasce l’idea di parlare delle donne in generale partendo dalla storia di queste tre donne così diverse?
Da molti anni progettavo di fare i ritratti di alcune donne. Mi sento infatti molto coinvolta – e anche preoccupata, a dire il vero – dalla condizione della donna nel mondo di oggi. Sono mamma di una bambina e da quando è nata mia figlia mi sono focalizzata ancora di più su questo argomento, chiedendomi in che mondo vivrà mia figlia, in che mondo vivranno le donne che verranno dopo di lei. Poi è successo che tre anni fa un giorno una delle mie più care amiche, che aveva ricevuto una diagnosi di cancro, mi ha chiesta di accompagnarla a comprare una parrucca. Alla fine lei ha acquistato una parrucca fatta con capelli umani: questa cosa mi ha colpito molto ed ho cominciato a chiedermi “Chissà da dove vengono questi capelli? Qual è la loro storia?” ed è così che ho capito che avrei potuto utilizzare quell’elemento per raccontare il destino delle donne nel mondo di oggi, come vivono, come se la cavano nella nostra società…
Smita, Sarah e Giulia, le protagoniste del tuo romanzo, sono tutte e tre – sebbene facciano vite diversissime tra loro – in un certo senso oppresse da un potere, da un destino che mette a rischio tutto quello in cui credono. Ma tutte e tre trovano dentro di loro anche una speranza. È una caratteristica tipicamente femminile questa forza che ti fa andare avanti nonostante tutto? Ad un certo punto nel libro rifletti sulla capacità invece tipica degli uomini di uscire di casa e apparentemente dimenticarsi di tutti i problemi e le urgenze della famiglia…
Credo che il coraggio non sia appannaggio solo delle donne. Il coraggio appartiene anche agli uomini. Diciamo però che nella società occidentale la donna in media è quella che si occupa dei figli e della casa e per quanto possiamo avere dei mariti stupendi, quando escono di casa tendono e riescono ad astrarsi dal mondo della casa e della famiglia. Le donne invece anche quando vanno a lavorare portano con sé la famiglia, tengono in testa tutto: fare la spesa, andare a prendere i figli a scuola, preparare da mangiare. C’è stata certo un’evoluzione in questi decenni, ma non è certo l’uguaglianza di cui si parla. Conosco donne che hanno vissuto l’esperienza del burnout, che ad un certo punto sono esplose. L’affascinante leggerezza dell’uomo di cui parlo anche nel romanzo è qualcosa che non condanno: diciamo però che tradizionalmente è abituato a concentrarsi sulla sua carriera. Quando torna a casa vive anche la famiglia con pienezza, ma non è il suo ambiente naturale, la parte principale della sua vita si svolge in media fuori della casa e dalle urgenze familiari.
In La treccia i lettori italiani trovano una cosa alla quale non sono molto abituati: un’ambientazione italiana scelta da uno scrittore che italiano non è. E che ha un sapore quasi “esotico”. Perché l’Italia? Perché Palermo?
Stavo cercando un luogo in cui ambientare la storia “di mezzo” del mio libro e un giorno ho visto un documentario nel quale si parlava della “cascatura”, cioè l’usanza siciliana di raccogliere i capelli tagliati per farne parrucche, una tradizione ancestrale ormai quasi scomparsa. Nel documentario si mostrava l’unico laboratorio artigianale che esiste oggi a Palermo, mi è subito sembrata un’occasione perfetta per la mia storia. Oltretutto ho molti amici siciliani che mi parlano della vita e della cultura nella loro terra, dell’importanza che danno alla tradizione, dell’attaccamento che hanno alle loro radici. Giulia è a metà tra la tradizione e la modernità: un lavoro antico che va salvato innovandolo. Ma la ragazza siciliana dimostra la sua modernità anche con il suo amore, che ha il volto di un uomo che ha origini diverse dalle sue, un colore di pelle diverso, una religione diversa.
L’altro grande tema del libro è il cancro. Recentemente una celebre donna politica italiana, ammalata di un tumore al polmone, ha dichiarato: “Io non sono il mio cancro”, la stessa cosa che afferma Sarah nel romanzo. Riusciremo mai a sconfiggere la paura profonda che ci porta a cambiare modo di comportarci quando una persona vicina a noi si ammala di tumore, che ci porta quasi a cancellare le persone malate di cancro, e a farlo anche con il sorriso sulle labbra?
Il cancro è qualcosa che colpisce tutti noi, tutti abbiamo un familiare o un amico o un conoscente che è stato toccato da questa terribile malattia. Sono stata profondamente colpita dalle testimonianze che ho raccolto di persone che come dici tu giustamente sono state messe ai margini o peggio cancellate dalla nostra società, come se nella nostra società non si avesse il diritto di essere malati, di essere fragili, di essere vulnerabili. Quello che racconto di Sarah, che ho voluto far muovere in uno studio legale prestigioso in cui si chiede di essere sempre al massimo, sempre performanti, sempre spietati, è proprio questo: viene messa ai margini perché “non si può permettere” di essere debole, di prendersi una pausa. E questa è violenza, una violenza sottotraccia, meno visibile di quella che subisce Smita in India ma non per questo meno insidiosa e velenosa. Un malato oncologico oggi si trova a dover vivere una doppia sofferenza: da un lato quella che deriva dalla malattia in sé, e dall’altro quella di essere messo da parte.
Sei una donna di cinema, lo si vede anche dal modo in cui racconti le tue storie. C’è il progetto di trasformare La treccia in un film?
Mentre lo scrivevo mi sorprendevo a pensare “Sarà difficilissimo trarre un film da questo libro”. Poi però mi sono resa conto di averlo scritto in modo molto visivo, cinematografico, vedendolo già sul grande schermo. La cosa che mi ha sorpreso è che appena il romanzo è uscito in Francia ho cominciato a ricevere tantissime proposte per realizzare un film. Mi hanno detto: “No, perché complicato? Basta girarne una parte in india, una in Italia e una in Canada! Anzi, ci viene fuori una bella coproduzione internazionale…”. Così mi sono convinta e con entusiasmo ho iniziato a scrivere la sceneggiatura, credo che il film uscirà tra un paio d’anni.