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Intervista a Lidia Ravera

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Lidia è una runner appassionata. Quando si corre - ama ripetere spesso - ogni pensiero è lieve, e la tentazione di credere di essere più di quello che si è, tipica di tanti intellettuali e scrittori, sgocciola via assieme al sudore. Terrorizzato dalla prospettiva di doverla inseguire per le strade di Roma col taccuino in mano e la lingua penzoloni, ho apprezzato molto che il nostro incontro abbia avuto come suggestivo teatro un raffinato locale consacrato al buon vino e ai buoni libri. L’eccessiva traspirazione, temo, è nemica delle interviste interessanti.




Cosa rispondi a chi dice cose come “Uffa, riecco la Ravera con sta storia della contestazione giovanile: ma non ha altro di cui parlare?” malgrado da Porci con le ali siano passati tanti anni...e tanti libri?
Diciamolo, sono l’unica che non è scappata e non si è nascosta quando c’era da festeggiare il quarantesimo anniversario del 1968. Al decennale eravamo tantissime, al quarantennale ero sola con tutti uomini. Questa cosa del ‘68 mi ha definitivamente sfracassato le palle. Ebbene sì, c’ero, ma ero una bambina e forse nemmeno ero capace di intendere e di volere, o perlomeno di volere sì! Infatti non avevo nessuna intenzione di tornare a parlare di ‘68 in un libro, poi è affiorata nella mia mente questa immagine di una ragazzina che vorrebbe lavarsi i capelli e andare in paese per fare una passeggiata serale, ma deve farlo di nascosto perché già di per sé lo shampoo è visto male, poi proprio quella sera la sorella diciassettenne ha dichiarato guerra ai padri. Insomma, si vede che era di nuovo venuto il momento per me di parlare di questi temi. Perché la memoria non è solo rughe e invecchiare, è dare uno sguardo lucido al passato, e riviverlo, non ricordarlo. Ho tenuto da parte la storia che ha dato vita a La guerra dei figli per molto tempo. Non puoi decidere di scrivere un romanzo dal giorno x al giorno y, sei come un pescatore: devi buttare la lenza, stare immobile a spettare che qualcosa affiori. La scrittura ti possiede, non sei tu che guidi il gioco. La letteratura del resto è come il maiale, non butti via niente, metti da parte e poi al momento opportuno ricicli tutto. Una prima parte del romanzo infatti l’ho scritta 4 o 5 anni fa, il resto adesso.

L’interpretazione degli anni della ribellione che dai - sin dal titolo che hai scelto per il romanzo La guerra dei figli - è più psicoanalitica che politica: le radici degli anni di piombo erano in qualche modo antropologiche o la tua è una grande metafora?
Ripeto, il ‘68 è stato in fondo un parricidio rituale, una gigantesca e collettiva fuga da casa. Allora c’era chi diceva che la gioventù è una classe sociale, io stessa scrissi - mamma mia che scemenza! - che la giovinezza è ontologicamente rivoluzionaria. Il mio ‘68 è esercitarsi a essere crudeli. Poi nel ‘77 il parricidio si fa meno rituale e più materiale con la lotta armata. Nel ‘78 col delitto Moro si arriva al punto di non ritorno, e infine nell’81 tutto inizia a finire, è l’alba di un mondo che dura ancora oggi. Mi ricordo che allora io due giorni a settimana partivo per Milano e scrivevo i monologhi di Johnny Dorelli per la trasmissione tv “Premiatissima”. Non chiedetemi perché, ma Dorelli aveva preteso come sua autrice “quella di Porci con le ali”. Quando arrivavo negli studi televisivi mi trovavo sbalzata in un mondo tutto paillettes e televendite che mi pareva una buffa nicchia e che mai avrei sospettato sarebbe diventato il mondo. Ormai il mercato ha fagocitato tutto: anche quando si va a cena con gli scrittori si parla di vendite, tirature, recensioni, interviste. Si parla di mercato.

Il mondo è cambiato anche dal punto di vista della cultura sessuale, in questi decenni. Tu che con Porci con le ali hai scritto quello che viene considerato un piccolo manifesto della rivoluzione sessuale in Italia, come la vedi?
Dopo trent’anni e più si può finalmente dire che il modello della liberazione sessuale degli anni ‘70 era repressivo né più né meno quanto quello di mia nonna. Io pativo da morire quell’obbligo “se non la dai non sei compagna” e così chissà quante ragazze.

Che rapporto hai con i lettori e con la percezione che hanno di te e delle tue storie?
Il lettore ha sempre ragione, come il cliente. E ciascun lettore ha la sua esperienza e fa il suo libro. 25.000 lettori - più o meno è questo il mio pubblico - significano 25.000 libri diversi. Io mi limito a dire di essere felice di essere riuscita a ricostruire il presente della vicenda che ho raccontato, di essere riuscita a fra percepire la profondità di campo dei personaggi, delle persone, che non sono figurine spiaccicate là. Cosa che invece rappresenta - mi spiace dirlo - il problema di molta letteratura contemporanea. Quando costruisco i personaggi fatico molto, lavoro molto, poi mi faccio guidare da loro. Per La guerra dei figli ho compiuto un esercizio che compio sempre ma qui di più perché avevo un rospo molto grosso da sputare, e cioè il mio rapporto con la violenza. Spogliare di ogni carattere estetizzante la violenza è stato importante per me, credo che chiunque venga dall’estrema sinistra lo debba fare. Negli anni ‘70 questa della violenza è stata l’unica ripugnanza che ho espresso: ne avevo anche altre, di ripugnanze, ma vivevo un conformismo che non me le faceva ammettere.

Ha senso distinguere una scrittura ‘femminile’? Esiste un valore diverso, aggiunto o mancante, nella scrittura delle donne?
Uno scrittore scrive con tutto il suo corpo, la sua esperienza del mondo, il suo sguardo. Non e’ indifferente se sei un uomo o una donna. Cambia la tua percezione. Sono scritture diverse perché sono soggetti diversi. Ma non sono caratteristiche fisse. Non esiste una scrittura femminile. Esiste una donna che scrive, diversa da un uomo che scrive.

Nel tuo romanzo No, grazie c’è una figura maschile fragile e tutto sommato deludente, che riesce però a condizionare pesantemente l’integrità di Piera, la sua limpida rinuncia al mondo della televisione. È questo il destino della donna o si tratta solo dell’incertezza di un’adolescente?
Non è la figura maschile che è fragile, è che siamo tutti fragili davanti all’ambizione, alla smania di apparire. Piera no, Piera è più innocente.

Lidia Ravera sceneggiatrice “tocca” il video con scetticismo, come un mostro senza amore, oppure gli spiragli di umanità di Glenda sono una redenzione accennata del mondo televisivo?
La televisione potrebbe avere una grande funzione, negli anni ‘50 forse l’ha anche avuta. Adesso ha abdicato.

I tratti di Glenda, il suo invecchiare, sembrano esasperati. cosi come la sua solitudine. Chi sono le quarantenni e le cinquantenni di oggi?
Oggi le quarantenni fanno finta di essere giovani, le cinquantenni non possono, anche se vorrebbero. Io credo che si debba restituire al crescere la sua dignità. Invecchiare non è un obbligo. Se si continua a crescere non si invecchia, anche se non si è più giovani.

Chi diventerà Piera? Una donna che come la madre cerca di cancellare macchie inesistenti da tavoli puliti o una soubrette con l’ossessione del video? La sensazione è che il suo destino sia implicito nelle premesse...
Nessuna delle due alternative, entrambe deprimenti. Diventerà una donna intelligente e complessa, consapevole, pessimista e forte.

I LIBRI DI LIDIA RAVERA