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Intervista a Lisa See

Articolo di

Giornalista per il “Los Angeles Times”, il “Washington Post”, “Cosmopolitan” e “Publishers Weekly” e donna molto impegnata politicamente nella sua California, Lisa ha compiuto frequenti viaggi in Cina alla ricerca delle radici della sua famiglia, e nei suoi libri ha esplorato aspetti anche quasi sconosciuti della cultura e della storia del Celeste Impero. La incontriamo - manco a dirlo - davanti a una fumante tazza di tè.



Cosa sappiamo esattamente del nu shu ? Qual era (e qual è, se ne ha ancora uno) il ruolo di questo modo di comunicare di cui ci parli nel tuo libro Fiore di Neve e il ventaglio segreto?
Si tratta di un linguaggio inventato circa 1000 anni fa in una regione remota della Cina, la cui esistenza era conosciuta solo da donne che se ne tramandavano la conoscenza di generazione in generazione e lo utilizzavano in segreto. Fu scoperto per caso negli anni ’60 e le autorità presero a perseguirne severamente l’uso, condannandolo all’oblio. Da qualche anno invece il governo cinese ha deciso di riabilitare il nu shu, che oggi viene addirittura insegnato in scuole apposite, ma ha perso del tutto il suo carattere segreto e romantico, l’emozione dei tempi in cui era l’unico modo di comunicare delle donne.

Il mondo delle donne cinesi nel tuo romanzo è un luogo di orrori e solitudine, di segregazione. Ma anche un mondo di fascino, raffinatezza, segreti. Non ti pare una contraddizione interessante?
Sì, davvero. Anche nelle circostanze peggiori le persone trovano il modo per comunicare, per esprimere loro stesse: questo è ciò che mi ha ispirato, il fatto che nessuno si aspettasse che queste donne avessero emozioni e sapessero esprimerle. Invece avevano trovato la loro strada, un linguaggio segreto che nessuno poteva soffocare. Questo è avvenuto nella storia in molti altri luoghi e periodi, mi vengono in mente le trapunte ricamate e gli spirituals degli schiavi in America, ad esempio.

Come sta cambiando la condizione femminile nella Cina superpotenza di oggi?
Per certi versi, la Cina è molto più avanzata riguardo alla parità uomo-donna rispetto al resto del mondo. Già nel 1949 Mao Tse Tung affermava che “le donne reggono l’altra metà del cielo”, ma come nel resto del mondo anche in Cina la metà di cielo che sostengono le donne sembra essere un po’ meno importante di quelle retta dagli uomini. Certo, nelle grandi città le ragazze studiano, lavorano, fanno carriera e sono anche imprenditrici, ma devono anche gestire la famiglia, accudire i figli e amministrare la casa, e nelle zone rurali più isolate dove le tradizioni sono più dure a morire c’è ancora tanta strada da fare.

Come può una relazione di amicizia decisa a tavolino come il laotong trasformarsi in un legame profondo e duraturo?
È vero che si trattava di amicizie suggellate da un contratto, ma è anche vero che le bambine potevano interromperle, ‘divorziare’ in un certo senso se la relazione non funzionava. Tipicamente però il laotong durava tutta la vita: era una cosa unica e rara, le ragazze potevano dire di avere qualcosa di speciale, un’amica per tutta la vita.

Sei autrice di un saggio/memoriale, di 3 gialli e ora di questo romanzo, senza contare la tua carriera di giornalista: perché tante diverse Lisa See?
E sono anche curatrice di mostre e membro della giunta metropolitana di Los Angeles! Penso a me stessa soprattutto come una scrittrice, ma questo non toglie che abbia il bisogno di fare altre cose. Penso che lavorare per la mia città, ad esempio, sia anche un modo di restituirle qualcosa che mi ha dato.

La Cina è sempre stata al centro della tua vita e della tua scrittura. Uscirà mai un libro di Lisa See che non abbia nulla a che fare con la Cina?
Sì, ma non subito. Il mio libro appena uscito negli Usa è ambientato nella Cina del XVII secolo. Invece il libro che sto scrivendo ha a che fare con il passato della mia famiglia. Sulla vicenda di una mia bisnonna morta in ospedale è sempre aleggiato un certo mistero, i miei sono sempre stati reticenti a parlarne. Ho trovato per caso il diario della mia trisnonna, sua madre, e scoperto che in realtà la bisnonna ha passato gli ultimi diciassette anni della sua vita in un ospedale psichiatrico. Da lì sono partita per raccontare la storia delle prime donne dell’Ovest, pioniere bianche povere sulle quali non è mai stato scritto niente.

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