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Intervista a Luciano De Fiore

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La cosa più gradevole e istruttiva di una chiacchierata di mezz’ora con Luciano De Fiore - posto che per almeno 15 minuti abbiamo disquisito sulle novità tattiche introdotte da Rudi Garcia nello schieramento della Roma: football, of course - è che ti senti come a cavalcioni del telescopio Hubble, in orbita. Cioè vedi le cose dall’alto, percepisci chiaramente simmetrie e traiettorie che dal suolo potevi solo intuire, diventi consapevole di legami e connessioni che invece nemmeno sospettavi. Filosofia, Storia, Scienza, Letteratura, Diritto allora si fondono in un unico sapere. Un affresco colorato ed emozionante che è bello imparare a guardare e gustare. Grazie del passaggio in orbita, dunque.




Che l’uomo – da millenni – sogni il mare è fuori discussione. Ma perché Anche il mare sogna?
È un’espressione di Così parlò Zarathustra. D’altra parte, Nietzsche è tra i filosofi più sensibili al mare: era anche un buon nuotatore a rana. Il mare sogna, perché è un Altro che possiamo considerare pienamente soggetto: capace di dormire, come di posare il suo sguardo su di noi, suscitando un’empatia tale da consentirci di avvertire che anch’esso, il mare, sogna. Il mare ci consente di specchiarci in un immenso catalizzatore di simboli, metafore e sentimenti che – da Omero in poi – si sono sedimentati nella nostra esperienza.

Si va per mare per perdersi o per trovarsi?
Per millenni, in mare ci si è persi. Si è andati alla deriva, si è fatto naufragio. L’Apocalisse promette una terra nuova nella quale non ci sarà più il mare. Tuttavia, l’esperienza del navigare, e più ancora del nuotare, ha favorito spesso la ricerca di senso. Forse proprio perché così estrema, così limitrofa al pericolo ed alla morte. Ma la sensibilità col tempo è cambiata: lo stesso naufragio è divenuto una metafora viva, non più mortifera, come all’inizio era con Lucrezio. Ortega y Gasset scriveva che vivere è trovarsi naufrago tra le cose, condizione radicale dell’esistenza, e per Karl Jaspers il naufragio è la condizione radicale dell’esserci.

L’immensità temibile, la profondità inesplorata, certo: ma è anche lo stato liquido del mare (per usare un aggettivo molto di moda) a farne una formidabile macchina per metafore, non trovi?
Non c’è dubbio, il suo potenziale metaforico è immenso. Anche per questo le arti e la filosofia ne hanno attinto senza temere di prosciugarne i significati, proprio perché – come dice il proverbio – la pretesa stessa di “svuotarlo” appare insensata.

Nel tuo saggio ripercorri la storia della percezione del mare da parte dell’uomo, il rapporto che i vari popoli che hanno “fatto” la civiltà occidentale hanno avuto con il mare. Quali sono state le tappe più significative di questo percorso?
Potremmo usare i sentimenti come segnali. La prima passione suscitata è stata la paura, dominatrice per secoli del rapporto tra l’uomo e gli oceani. La filosofia ha accompagnato e registrato il predominio di questo sentimento: basti pensare al rispetto che Platone nutre per le acque. Ricordiamoci però che già Aristotele, allievo di Platone, scrive nel trattato Sul cielo che navigando verso ovest oltre le Colonne d’Ercole si dovrebbe arrivare in Cina. E infatti poi si è imposta la curiosità, la capacità di sfruttarne le onde e la superficie, all’epoca della prima grande globalizzazione, delle scoperte. Un terzo sentimento potente, caratterizzante un’epoca, è stata la meraviglia, che ha favorito l’apprezzamento romantico delle distese marine, delle tempeste, della profondità stessa. Profondità e superficialità sono le due grandi coordinate sulle quali la filosofia si è misurata col mare.

Cosa c’entra il surf con Gilles Deleuze?
C’entra appunto perché Deleuze rivaluta appieno la superficie, la pelle delle cose. Come lui, una parte significativa della riflessione francese del Novecento. Sull’acqua siamo in un contesto sanamente “superficiale”. Come per Derrida, il senso è in superficie. Non c’è un “dentro delle cose”: lo diceva già Hegel polemizzando con Kant e riportando la profondità in superficie. Ed in una filosofia della superficie il paradigma della dimensione liquida, non può che essere determinante. Ne la Logica del senso, Deleuze cita continuamente il detto di Valéry: “il più profondo è la pelle”. Ed allora utilizza l’immagine della piega dell’onda e del surf per dar conto del nuovo modello antropologico post-moderno. Oggi diviene fondamentale “farsi accettare” nel movimento, nell’energia disponibile. Attenzione: sfruttare l’onda non per farci portare alla deriva (altra metafora nautica ricchissima), ma per andare dove vogliamo noi, assecondando però le “ragioni” dell’onda…

Mare e femminilità: la grande madre, le sirene...
Intanto, in francese – come in un’accezione del tedesco – il mare è femminile. Se lo fosse stato anche in italiano, forse ne avremmo avuto nei secoli un’immagine in generale meno arcigna, meno terribile. Dovrei lasciare spazio qui alle riflessioni della psicologia del profondo. Basti pensare a Ferenczi. Le Sirene meriterebbero un discorso a sé: originariamente esseri metà donne e metà uccelli, se avessero potuto farsi accettare col loro canto da Odisseo, arginandone il delirio d’onnipotenza, forse avremmo avuto addirittura una ragione occidentale diversa, meno intellettualizzante ed impermeabile alle passioni. Quella tra Sirene, Orfeo e Muse è stata la prima vera finale di X Factor, decisiva per il nous che, purtroppo, ne è uscito largamente vincente.

Oltre che spunto per i filosofi il mare è da sempre anche soggetto per gli scrittori. Come e perché hai scelto gli scrittori dei quali parli nel libro?
Non avevo che l’imbarazzo della scelta. Alcuni autori scrivono del mare in un modo che è quasi immediata la trasposizione in termini riflessivi. Naturalmente, così il mare il più delle volte ci perde (in vivezza, colore, profondità anche): non è possibile essere più “marini” di Ovidio, Conrad, Stevenson, Valéry o Camus, giù giù fino ai nostri Soldati, Tobino o Magris. Poi ci sono dei “mostri”, come Dante e Joyce…

Chi è, cosa è Ulisse?
Ecco, appunto: è l’eroe dei più grandi, di Omero, Dante, Joyce. Ho cercato di tenermene alla larga: troppe riflessioni interessanti, troppa bibliografia. L’Ulisse che resta immortale è quello del canto ventiseiesimo della Commedia, più dell’Odisseo arcigno e risoluto dell’opera omerica. Anche se quest’ultimo è stato integrato dall’ermeneutica di grandi scrittori come Joyce, Kafka e Blanchot che hanno ridato profondità e mistero al suo rapporto con le Sirene, alla dialettica tra parola, suono e silenzio.

Mare da navigare, ma anche da nuotarci dentro...
Immergersi, stavolta, vale più di una metafora. Rispetto a una “filosofia della navigazione”, proporrei uno sforzo ulteriore: non è più questione solo di navigare, ma di nuotare, rinunciando alla prudenza che, nei secoli, ha contraddistinto l’attitudine filosofica nei confronti del “tremendo”. Siamo immersi nell’insicurezza che già noi stessi siamo, senza alcun compiacimento, beninteso, e non c’è battello che possa trarci in salvo, all’asciutto. Siamo proprio come quel chierico medioevale che, per imparare a nuotare, fu costretto ad entrare in acqua. Altro che prosciugare lo Zuyderzee…

Perché guardare all’opera letteraria di Philip Roth (e forse anche alla sua parabola umana) attraverso la lente del desiderio?
Perché il desiderio attraversa tutta l’opera di Roth, dagli esordi fino all’ultimo (? ) libro. Non soltanto per i primi romanzi (come Lamento di Portnoy), nei quali è evidente il tema del desiderio senza fine. In tutto Roth pulsa il desiderio di desiderare, il sentimento che trae nutrimento dal proprio continuo riproporsi, che rinasce nella propria inesaustività al di là del “suo” oggetto. Un desiderio che ha un che di “perverso”: appunto perché si nutre del proprio riproporsi, desidera che la catena dei propri fantasmi non s’interrompa, che non se ne esauriscano mai gli anelli. E poi, il desiderio è una lente che deforma di quel tanto da rendere ancor più interessante il nostro oggetto, avvicinandolo, allontanandolo, divergendolo.

Dei protagonisti dei romanzi di Roth si dice sempre che sono alter ego dell’autore. Per quale di loro questa affermazione ti sembra più vera e pregnante? E perché?
Qualsiasi lettore addicted risponderà: Nathan Zuckerman. Gli assomiglia di più, certo. Una vicinanza ultrasimpatetica:  Zuckerroth, si è arrivati a chiamarlo. Però, Roth stesso ha scritto in Inganno: “Quando uno scrittore degno di questo nome è arrivato a trentasei anni, non traduce più l’esperienza in una favola: impone le sue favole all’esperienza”. Figuriamoci quando questo scrittore ha superato gli ottanta ed ha scritto più di trenta libri che, come la pietra lanciata dal Diavolo, appartengono ormai al mondo.

I LIBRI DI LUCIANO DE FIORE