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Intervista a Luisa Mazzocchi

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Laureata in Giurisprudenza, funzionario della pubblica amministrazione, un marito e due figli, Luisa Mazzocchi ha fatto dello scrivere la sua passione e – perché no – la sua valvola di sfogo. Una passione che coltiva con metodo ed entusiasmo, se si considera che con la conclusione della sua Trilogia delle Sibille è arrivata al suo sesto romanzo.




Hai fatto una scelta: rinunciare ad avere un editore...
Sì, le esperienze precedenti mi hanno insegnato che gestendomi i libri da sola posso fare come voglio, sotto tutti i punti di vista e mi sento libera! Anche nei tempi di scrittura.

Nel frattempo hai concluso la tua Trilogia delle Sibille, sei arrivata a sei libri e sotto certi aspetti sono tutte cose diversissime...
È stata una liberazione finire la trilogia anche perché il primo libro di questa serie l’ho pubblicato che era la fine del 2014 e mi rendo conto che chi prende adesso in mano l’ultimo si è dimenticato di tutti i personaggi e della loro evoluzione. E comunque sì, hai ragione, sono tutte cose molto diverse. Proprio perché io non sono legata a contratti commerciali per cui nella mia vita di lavoratrice e di madre di famiglia la scrittura rappresenta uno sfogo, comunque il mio vero essere. Quando sono davanti al computer, oppure scribacchio qualcosa, mi metto la musica da film nelle orecchie, perché ho bisogno di atmosfere e poi comincio a scrivere, mentre sono proprio immersa in quello che faccio e, quando raggiungo la piena concentrazione, io, i personaggi di cui scrivo, li vedo, sento le loro voci, entro nel loro mondo e comincio a scrivere, tant’è che perdo proprio la cognizione del tempo, mi scordo di mangiare e magari mi vengono a chiamare mio marito o i miei figli: “Ohi, ma non si mangia stasera?”, perché proprio io mi perdo. E in momenti proprio duri della mia vita, la scrittura è stata un salvagente incredibile! Per cui io voglio spaziare in qualsiasi genere, qualsiasi cosa che mi faccia “divertire”, che non è sempre un divertire umoristico, o almeno non necessariamente. Anche entrare nel mondo del fantasy rientra in questo, perché gli elementi fantasy che trovi nei miei romanzi hanno tutti un carattere spirituale, nel senso che in genere è la memoria che chiama, sono le passate generazioni e questo valore della memoria lo vedo anche nelle Sibille, la tragedia della nonna che chiama la nipote, come un filo che tiene comunque appese varie generazioni, come a dire: “Non mi scordare! Io ci sono e tu sei così perché c’è una memoria, perché c’è stato qualcosa”. La cesura con il passato, quando un popolo perde le tradizioni, la memoria, persino il dialetto, per me è una ferita. Trovo folle che si giudichi il passato con i canoni di ora, come accade in America, con quei movimenti che vandalizzano le statue... Secondo me è un insulto anche a noi stessi. Vedo questi "elementi paranormali" che si trovano nei miei romanzi, come elementi dell’anima e non come una storiella dove c’è la fata e poi la strega che arriva. È un po’ più profondo e non so se questo arriva ai lettori.

Quindi, se ho capito bene l’aspetto fantasy è il passato che interviene? È ciò che è immagazzinato nella nostra memoria ancestrale?
Sì ed è qualcosa di cui siamo a volte inconsapevoli. Pensa alle Sibille che chiamano e succede anche nel terzo romanzo. Laura in realtà non è più un’umana, fin da quando è stata salvata, nel primo libro, lei è una Sibilla a tutti gli effetti, ma per decisione della Madre Sibilla lei è quella che fa da tramite, è un ponte e ci saranno generazioni ancora di Sibille che andranno avanti. Ognuna di esse, infatti, se ci pensi, ritorna come fata Sibilla e lo fa valorizzando il territorio, che è quello dei Monti Sibillini che non conosco benissimo, ma mi piace tanto. Adoro per esempio la Gola dell’Infernaccio: ha una di quelle ambientazioni molto fantasy, un po’ dark, ma con alberi verdi. Io quando descrivo quelle scene sento proprio gli odori del bosco, quasi mi fanno da aromaterapia. Secondo me non c’è bisogno di andare così lontano per scrivere qualcosa di magico e comunque qualcosa che ti fa bene, perché ti porta via dalla città e dalla vita di tutti i giorni, nei boschi che sono veramente magici, perché anche noi abbiamo le nostre leggende. Tutte queste serie televisive americane, anglosassoni con spiriti, fantasmi, troni di spade... ce l’abbiamo pure noi, nelle Marche! Solo che non lo sappiamo o ce lo dimentichiamo. La stessa città di Ancona ha una storia millenaria molto interessante, con tantissimi episodi di fantasmi e anche tanti libri che li raccontano. Ho scoperto che in certe zone di Ancona, si ripetono queste apparizioni non meglio definibili, soprattutto nei palazzi più antichi. Abbiamo anche molta storia. L’unica cosa necessaria è che si deve scrivere di quello che si conosce. È come ascoltare quando cammini per le tue strade e la zona dell’Infernaccio secondo me ha qualcosa di magico che mi piacerebbe fosse maggiormente valorizzato anche da noi stessi, cittadini delle Marche. In letteratura sul territorio marchigiano c’è una specie di buco nero. Pensa che un paio di anni fa, digitando su Google il mio nome e cognome (perché ogni tanto vado a vedere se c’è qualcuno che mi scrive qualcosa), mi sono ritrovata con uno dei miei libri che era stato scelto dalla Commissione Italiana UNESCO per rappresentare le Marche nella Giornata mondiale del Libro e ancora non so come sono stata “scoperta”: in mezzo a scrittori come Deledda, Camilleri, io non c’entravo niente! Per ogni regione d’Italia sono stati selezionati degli scrittori e sono arrivata alla conclusione che qui non sono molti gli scrittori che parlano della propria terra. Ne parlavo con la titolare di una libreria di Ancona dove ogni tanto entro per chiedere se c’è qualche romanzo ambientato sulla mia città. Lei mi risponde sempre: “No, credo che ci sia solo tu e pochi altri”. Quindi mi piacerebbe che noi stessi fossimo maggiormente legati al nostro territorio. Ho scritto recentemente un racconto che verrà pubblicato nella raccolta Marche d’autore, per la quale hanno chiesto a vari scrittori di raccontare un piatto o un prodotto della nostra regione. E io subito cosa ho pensato? Alla mela dei Sibillini! È particolare, assomiglia un po’ alla mela cotogna e praticamente era quasi estinta. Anni fa ne è stata ripresa la coltivazione da parte di piccole ditte che l’hanno rimessa in produzione, proponendola ai consumatori e ha una sua storia, anche quella millenaria! Credo che dovremmo essere anche noi, invece di criticare sempre le varie autorità, a fare qualcosa per il nostro territorio! Per me scrivere è anche un fatto sentimentale.

Parlando ancora di localizzazione, credo che chiunque legga la trilogia, voglia conoscere i Sibillini! Una sorta di marketing territoriale...
A me fa piacere che ogni tanto mi arrivi qualche mail, anche se non quante ne vorrei (in ogni libro metto i miei riferimenti perché mi piacerebbe poter scambiare opinioni con i miei lettori, soprattutto attraverso la mail, luisa_mazzocchi@yahoo.it, che ricordo anche a Mangialibri così magari la diffondiamo!). Dicevo, mi piacerebbe un sacco che mi contattassero, anche sui social. Sì, mi fanno piacere le recensioni, ma anche che qualcuno mi chiedesse qualcosa, si confrontasse con me. Per esempio qualcuno mi ha detto: “Lo sai che ho letto il tuo libro e ho fatto un viaggio ad Ancona grazie a questo?”. Queste cose mi fanno strapiacere!

Beh, ci credo. Tra l’altro tu hai una profonda conoscenza di questo territorio ed è fondamentale anche per far muovere i tuoi personaggi...
Queste leggende delle Sibille ti fanno tornare indietro nella storia di questo territorio, ad esempio con la Battaglia del Sentino e le donne celtiche che combattevano insieme ai loro uomini e che poi sono scappate sui monti, dove facevano riti druidici, quelli magici. Comunque sia sono antiche popolazioni che con l’invasione sono arrivate in Italia, a dimostrazione di quanto noi italiani siamo il miscuglio genetico di tante razze e popoli. Noi marchigiani poi abbiamo origini dal Centro Africa di milioni e milioni di anni fa. Ecco a me questo aspetto spirituale, sentimentale e antico piace molto e lo butto in ciò che scrivo, è qualcosa di estremamente terapeutico. Dopo aver fatto questa esperienza della scrittura, sono cresciuta tantissimo, ho fatto presentazioni dei miei libri in cui ero emozionatissima, ho fatto conferenze nelle scuole chiamata dagli insegnanti, nelle librerie, sono stata contattata da giornalisti e ho acquisito una consapevolezza che nemmeno uno psicoterapeuta molto in gamba potrebbe raggiungere. Io non voglio sembrare esagerata, ma la scrittura la consiglio come esercizio a chiunque perché chiunque ha bisogno di riflettere. Lo scrittore è privilegiato perché ogni personaggio lo fa muovere come vuole, all’inizio, poi ti rendi conto che il personaggio ti sfugge. È inutile che tu decida di fargli fare un’azione, se quel personaggio nelle corde non ce l’ha, perché ti si ribella. Ti dici: “Adesso questo qui lo faccio andare da questa parte”. Ma poi ti immagini che lui ti guardi e ti dica: “No, non ci vado in quella osteria, perché io non bevo!”. Quindi dopo un po’ vedi tutti i tuoi personaggi che si muovono da soli e... cominci a divertirti. Io voglio essere libera come sono liberi loro. Avevo un’idea romantica degli editori, perdendo di vista che le case editrici sono aziende, che devono fare business, cercano il prodotto che va di moda, per cui io sto avendo molte soddisfazioni in questa strada autoprodotta nella quale sono libera. So che gli editori mi odieranno in questo momento, però sono arrivata nel tempo a questa consapevolezza.

Qual è stata la difficoltà maggiore che hai incontrato nel realizzare la trilogia e soprattutto nel chiuderla?
Ne ho incontrate diverse: innanzi tutto il finale. Mi è rimasta impressa una conversazione che abbiamo avuto io e te sul personaggio di Laura e di come lo volevo far finire. Avevo detto che potevo farla morire, facendola diventare una Sibilla, ma tu mi hai detto: “No, non farlo!” e io ho pensato molto a questo tuo parere. Diciamo che questo terzo romanzo è breve, molto concentrato, ma con un finale a sorpresa. Mi piacerebbe che alla fine il lettore continuasse a pensare dentro di sé a un altro finale o a immaginare ulteriori sviluppi. Si chiude, ma non chiude proprio. E comunque non andrà oltre la trilogia, che ho trovato un lavoro molto faticoso, anzi, in certi momenti di scoramento l’ho pure maledetto, dicendo a me stessa che non ne farò più, perché comunque è andata avanti per parecchi anni, con tanti lettori che mi incalzavano: “Ma quand’è che la finisci?”, “Quand’è che esce il prossimo?” e adesso mi ritrovo con quelli che mi dicono: “Ah, hai pubblicato il terzo, ma adesso devo rileggere gli altri, perché non mi ricordo più quali sono i personaggi!”. Insomma, diciamo che qualche difficoltà c’è stata! Tra l’altro una situazione così lunga nel tempo è complessa perché tutti noi cambiamo e quindi, anche se non ce ne rendiamo conto, oggi non siamo più gli stessi del 2014. Già non siamo più le stesse persone che eravamo ieri, perché magari abbiamo avuto un’esperienza che ci ha cambiato una visione, o alcuni aspetti della visione che abbiamo della vita e magari ci ha regalato anche una ispirazione per scrivere altri libri. Quindi figuriamoci riprendere in mano qualcosa dopo tanti anni e voler cambiare tutto... In questi anni mi sono sentita bloccata da una storia che dovevo comunque finire. In certi momenti l’ho sentito un po’ pesante questo impegno della trilogia! Poi c’è, ma questa è comune a tutto ciò che scrivo e anzi proprio all’attività dello scrivere, una difficoltà di tipo pratico - logistico, perché la mia casa non è molto grande e ci viviamo in quattro e io devo trovare sempre uno spazio tranquillo dove scrivere. Sogno una villa con una finestra che dà su un parco o su una montagna, dove poter far vivere la mia fantasia.

E io che pensavo che avresti avuto nostalgia...
No, no, adesso che ho finito, sono molto soddisfatta! Scherzi a parte, che devo dirti, nostalgia? Sì e no, nel senso che io sono legata anche alla storia del mio primo libro Doric Hotel, quindi figuriamoci se non sono legata a questo. Diciamo più che altro che sono molto affezionata ad alcuni dei personaggi della trilogia, tutte donne. Silvia, Asia, figure secondarie come la domestica Pia, a queste donne ingenue che sono ostaggio della cattiveria sia di altre donne che di uomini, sono molto affezionata. L’unico uomo per cui ho provato molta tenerezza è questo Ferrante del terzo libro, tant’è che l’ho scelto per il titolo di chiusura della trilogia, le sue rose sono la figlia adottiva Rosetta e la nuova Silvia che verrà dopo di lei. Cercando un nome diffuso qui nel territorio, nel Settecento, è venuto fuori questo Ferrante che mi è piaciuto molto e poi il cognome Galeazzi è anconetano dalla prima sillaba all’ultima.

Tu hai una capacità singolare di mettere insieme tutti i generi letterari possibili, ma pur se un po’ fantasy, un po’ thriller, un po’ romantico riesci a essere comunque intrigante. Come fai?
Perché mi piace molto il cinema e mi piacciono tutti i generi di film, basta che siano coinvolgenti, che mi facciano stare a bocca aperta nel seguire la trama, mi piacciono i colpi di scena indipendentemente dal genere di racconto, devono farti stare, come diceva mia nonna, “sul pizzo della sedia”, sempre in tensione, mai completamente rilassato, ma devono stimolarti la riflessione. Ultimamente per esempio mi piace molto il cinema spagnolo. Siccome quando io penso alla trama di un libro me la immagino come in un film, ecco che è il riflesso di questa mia passione per il cinema, una specie di sceneggiatura. Se pensi, anche i miei romanzi sono brevi e concentrati, così come una sceneggiatura che svolge tutto in due ore. Non mi piacciono i testi eccessivamente lunghi e descrittivi.

Prima di guardare avanti, volevo chiederti se c’è un libro dei sei che hai scritto a cui sei in assoluto molto più legata rispetto a tutti gli altri? E perché?
Doric Hotel mi ha dato tante soddisfazioni a livello di critica, di lettori, soprattutto perché l’ho scritto in due anni non pensando necessariamente a una pubblicazione. È da lì che è nata questa esperienza, proprio di fronte alla targa del Rifugio di Santa Palazia ad Ancona, dove è avvenuta la famosa strage nel 1943 nella quale sono morte tantissime persone. Mentre passeggiavo lì, mi sono fermata davanti alla targa commemorativa e ho visto la storia, come una vera e propria illuminazione! Lì è iniziata la mia storia di scrittrice, in quell’esatto momento e da lì ho cominciato un po’ a scrivere, innanzitutto per hobby. Quindi non avevo l’attenzione che ho sviluppato dopo, perché dopo il primo che è piaciuto tanto ho cominciato a vedere le aspettative dei lettori per i romanzi successivi e quindi un pochino di paura di deludere ce l’ho avuta. Il secondo romanzo è stato un noir, Puoi chiamarmi Luca, con un’ambientazione carceraria e legato a una attualità un po’ più pesante e lì ho visto che alcuni lettori sono rimasti delusi. Forse delusi è una parola grossa, ma diciamo che non tutti hanno gradito questo cambio di genere. È questo il momento in cui devi fare una scelta: scrivi per te o per i lettori? In linea di massima io scrivo di più per me, perché se non piace a me e scrivo una cosa forzata, il lettore se ne accorge. In questi anni ho visto tutti i tipi di lettori possibili: da quelli più superficiali che non approfondiscono e si fermano alla storia che consegni loro, a quelli attenti che si accorgono veramente di quella virgola e di cosa voleva dire. Il libro diventa diverso per ogni lettore, cioè lo stesso libro da te viene inteso in un modo, da un altro in maniera totalmente differente e anche in termini di positività e negatività, perché in ogni personaggio, secondo me, ci si rivede il proprio vissuto.

Di sicuro il filtro del proprio vissuto, del proprio modo di essere, c’è sempre...
C’è sempre, hai detto bene. Ci sono stati messaggi di alcuni lettori che mi hanno scritto di aver pianto in alcuni passaggi, che si sono commossi, altri che invece quegli stessi passaggi l’hanno letti con superficialità o addirittura con astio, preferendone altri totalmente diversi, perché secondo me si va a colpire le corde di ciascuno e qualche esperienza specifica. E poi ho scoperto il mondo dei lettori, che è assolutamente trasversale. Io ho trovato lettori forti e molto attenti tra persone che magari culturalmente non hanno un grosso bagaglio. Trovi lettrici assidue dove meno te l’aspetti e con una conoscenza e una padronanza incredibile della lettura in generale, proprio come passione! E poi ci sono quelli con la valigetta, magari doppia laurea, cultura mostruosa che ti fanno pensare essere lettori accaniti, invece non hanno mai aperto o quasi un libro di narrativa, perché il libro per chi ha studiato tanti anni viene vissuto come mezzo di sofferenza e non di evasione. Lo so perché lo stesso effetto lo ha fatto anche a me, per tanti anni. Riflettendoci, molta di questa colpa la do alla scuola che non racconta ai ragazzi il volo di fantasia rappresentato da un libro. Me l’hanno direttamente detto anche i ragazzi quando sono andata a fare conferenze nelle scuole: “Signora, guardi, noi non leggiamo perché già abbiamo da leggere e studiare tanti libri legati al programma e ogni tomo per noi è una sofferenza”. Quindi non hanno idea di come la lettura sia evasione, divertimento.

Guardiamo avanti: adesso su cosa punterai l’attenzione?
Nell’immediato ho deciso di dedicarmi un po’ di più alla promozione. Il romanzo è come un figliolo e come un bambino va accompagnato. Quindi sto pensando alle presentazioni. Preferisco molto di più farle in Rete, perché come evento classico la presentazione non sempre dà soddisfazione, non essendo mai molto affollata. E poi sto iniziando con la traduzione in inglese: la prima mi è stata appena consegnata. Mi piacerebbe lanciare i miei libri sul mercato anglosassone e devo vedere come, anche dal punto di vista della promozione... in mondi lontani! Però ho questa ambizione di far conoscere Ancona in America e in Inghilterra. Sto anche già pensando a un prossimo romanzo che sarà ambientato nell’Ancona di metà Ottocento. Perché poi quando ti metti a studiare vedi che tutti i tuoi interessi si diramano a raggiera. Un paio di anni fa cercavo sul web notizie su Ancona nel 1800 e mi è venuta fuori l’Accademia di Danze Ottocentesche: ho fatto una lezione di prova, insieme a mio marito e c’è piaciuto da matti, quindi siamo diventati membri di questa Accademia, abbiamo imparato le danze e le stiamo ancora imparando, abbiamo fatto diversi eventi. Questa passione per la scrittura mi apre tantissime porte, mi fa conoscere gente e situazioni che nemmeno pensavo. Quindi mi piacerebbe tornare sulla storia di Ancona, ma ho alcune idee anche legate agli Anni Cinquanta. Insomma di idee e progetti ne ho tanti, adesso devo trovare il tempo! Forse quando andrò in pensione, mettendomi a fare la scrittrice a tempo pieno. Uno degli obiettivi è la trilogia in inglese, per il momento mandiamo avanti il primo, per vedere che succede, quasi come una vittima sacrificale! Sono pochi gli scrittori italiani che riescono a oltrepassare i confini, a parte uno sparuto gruppo di famosissimi, come la Ferrante che spopola. La cosa che mi incuriosisce è che siano sempre questi libri che parlano di aspetti problematici del nostro Paese. Ho già scritto anche un lavoro destinato al teatro dedicato ad Alda Renzi, che era la famosa sarta della Caserma Villa Rey, eroina anconetana che è stata un po’ dimenticata e che per caso ho scoperto essere la bisnonna di una mia carissima amica. Questa sarta, nel settembre 1943, dopo l’armistizio, quando la Caserma fu presa dai tedeschi, sapendo che un migliaio di soldati italiani erano rimasti intrappolati dentro questa struttura immensa davanti alla quale lei abitava, portava dentro i vestiti delle figlie che erano ormai grandi e già sposate e ci mascherava questi soldati, oppure li mascherava da preti e li faceva uscire, liberandoli da quella prigionia. Ne ha salvati un centinaio, rischiando lei stessa di morire: è stata una mamma per quei soldati! Poco tempo dopo è morta, a 53 anni, proprio dentro il rifugio, nel novembre del 1943 e quei soldati, finita la guerra, quando sono andati a cercarla, hanno scoperto questa triste verità e hanno raccontato la grandezza di questa donna. Una storia tragica, una donna eroica a cui ho dedicato un lavoro teatrale, anche se non so quando e dove sarà rappresentato, ma spero che l’anno prossimo, finita la pandemia, possa trovare una strada per farsi conoscere, magari anche solo in un video. A me è piaciuta tantissimo l’immagine di questa donna che solo perché era una mamma ha voluto salvare quanti più soldati le è stato possibile. Per lei quei soldati lì dentro la caserma erano tutti figli, li curava quando avevano la febbre. E non era proprio dolce, era una donna burbera, come lo erano le donne di una volta, ma era affettuosa e in questo mondo di oggi in cui si fanno le cose solo per convenienza, perché ci si deve sempre guadagnare qualcosa, questa figura mi ha affascinato moltissimo, così, disinteressata al massimo. Un’eroina, proprio!

Quindi, come hai confermato, sei in fase di ricerca perché c’è un sacco di ricerca dietro ai tuoi libri, ma una volta arrivata all’obiettivo, cioè individuato il tema, l’ambientazione, che succede?
Non parto ancora a scrivere, perché comincio a scrivere quando il lavoro l’ho già preparato: devono passare mesi per poter cominciare, mesi nei quali dopo la raccolta di testi comincio a leggere, a sentire le testimonianze, a immaginare. Cerco, insomma, di farmi trovare preparata per quando mi siederò davanti a un computer, in una scrivania piccolina che ho messo nella mia camera da letto e questo è tutto lo spazietto che sono riuscita a ricavarmi. Il lavoro preparatorio è stato fatto, quindi si tratta di scriverlo. Poi mentre scrivo e racconto la storia, spesso faccio anche dei cambiamenti dell’ultimo minuto, perché magari vedo che la trama ha dei buchi o conseguenze illogiche, però in genere quando sono lì, ho già fatto buona parte del mio lavoro mentale.

C’è una cosa che, dopo sei romanzi, nessuno ti ha mai chiesto, ma te la saresti aspettata o avresti voluto che ti fosse chiesta?
Come autrice? Magari in merito al mio sogno segreto. Che è poi quello che qualcuno faccia un film con i miei testi. Ecco, un set cinematografico qui in città: questo sì che è il mio sogno! Poi mi piacerebbe che i lettori prendessero un po’ più contatti con me, per le loro impressioni, per domande, curiosità. Anche via mail, non è detto che debbano fare chissà quale percorso! Però, certo, una realizzazione cinematografica è sicuramente il sogno nel cassetto più grande, però non so se riuscirò mai a realizzarlo e se qualcuno riuscirà mai ad accontentarmi, perché il mondo del cinema è molto lontano da me! A parte il momento di profonda crisi che sta attraversando... Però, per carità, mai dire mai. Anche se so che qualche produttore dovrebbe interessarsi, ma... la vedo dura. Penso rimarrà un sogno.

Senti, mi incuriosisce proprio tanto questo insistere sul rapporto con i lettori. Che cosa rappresenta per te questo rapporto che cerchi con chi legge i tuoi libri?
In un passo emozionante io sono la prima ad emozionarsi mentre scrivo, vorrei che questa emozione arrivasse a chi legge per come la sento io. E quando mi scrivono che il mio romanzo li ha emozionati, li ha commossi, ha fatto passare loro delle belle ore, che hanno fatto le tre di notte a leggere e così via, a me fa tantissimo piacere, anche se mi piacerebbe sapere di più su che cosa li ha emozionati in quelle pagine, in quelle righe. Vorrei chiedere loro se vi hanno ritrovato qualcosa della loro vita, qualcosa che fa parte della loro famiglia, di vissuto, di raccontato in questo ambito familiare. Penso che mi aiuterebbe meglio a scrivere, senza pensare che magari possono anche darti delle idee per il futuro. A volte le persone ti raccontano delle storie vissute che sono equivalenti a romanzi: “Nella mia famiglia è successo questo e questo”, “Mio nonno era illegittimo ed era figlio di un barone che si è approfittato della domestica, ma poi l’ha ripudiata”... Ecco, in molti hanno delle storie che veramente non hanno nulla da invidiare a un romanzo. E magari ti danno idee o ti fanno accendere lampadine per prossime storie, anche senza attingere a piene mani nelle loro storie. Uno scambio di idee e di esperienze con i lettori che a volte sono decisamente sorprendenti. Mi è anche successa una cosa che ha dell’incredibile in questi scambi, perché per esempio, quando ho scritto Doric Hotel, il mio primo romanzo, sapevo che in corso Mazzini ad Ancona c’era la vecchia pensione Astor, vicino alla Galleria Dorica, dalla parte delle bancarelle ed era una pensioncina di basso livello, frequentata da prostitute e non certo da signoroni. Il mio Doric Hotel, così, me lo sono immaginato lì, proprio in quella pensione. Tempo dopo ho incontrato una signora, fan del mio romanzo, che mi si è presentata per dirmi: “Lo sai che io me lo ricordo davvero il Doric Hotel?". Le ho risposto: “Guardi, in realtà non esisteva perché il Doric Hotel me lo sono inventato io”. “No, no - fa lei - si chiamava proprio Hotel Dorico”. Beh, non puoi capire che brivido mi ha percorso la schiena. Ho immaginato una cosa che c’era davvero. La signora era anziana, ebrea e mi ha raccontato un sacco di cose, poi da lì ho conosciuto anche il responsabile della Comunità Ebraica di Ancona che mi ha fatto fare un giro dentro la sinagoga. Ecco, quando parli con i lettori, ti si apre un mondo e accedi anche alle loro esperienze ed è un arricchimento vicendevole: è questo che mi piace!

I LIBRI DI LUISA MAZZOCCHI