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Intervista a Majgull Axelsson

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Scrittrice, drammaturga e giornalista, Majgull Axelsson è una delle più apprezzate autrici svedesi, tradotta in ventitré lingue e premiata in patria con l’ambito Augustpriset. Dopo essersi affermata con inchieste su spinose problematiche sociali come la prostituzione infantile nel Terzo mondo e la povertà in Svezia, ha esordito con successo nella narrativa, coniugando l’attenzione per le ingiustizie e per le condizioni di disagio materiale ed esistenziale con una grande capacità di calarsi nei destini dei suoi personaggi. L’abbiamo incontrata al Pisa Book Festival 2016.




Io non mi chiamo Miriam è un libro potente, non solo perché è scritto magistralmente ma perché sfida un paio di tabù letterari: tratta in forma romanzata il tema dell’Olocausto, cosa qualcuno sostenne non sarebbe mai stata possibile…
Penso sia stato Primo Levi a dire che questo tema sarebbe stato off limits per i romanzieri e cinquant’anni fa sarei stata d’accordo con lui: ma oggigiorno, quando molti dei sopravvissuti sono morti, è assolutamente necessario mantenere viva la memoria di ciò che è successo settant’anni fa. Tocca ora ai romanzieri raccontare le storie nella maniera che è loro più consona. Quando avevo circa vent’anni ricordo di aver letto L’ultima scintilla di Erich Maria Remarque e mi ha lasciato un’impressione molto forte, ma penso che essendo così giovane all’epoca ho frainteso molte cose. Ad esempio, nella mia immaginazione un campo di concentramento era un luogo molto silenzioso, dove le persone morivano di fame in silenzio. Successivamente ho realizzato che ciò che lui descriveva erano le stanze della morte, luoghi in cui i prigionieri trascorrevano gli ultimi giorni della loro agonia. Qualsiasi apporto noi romanzieri possiamo dare per la conservazione della memoria e per quanto bravo sia un romanziere, nessuno mai scriverà pagine più potenti e belle di quelle che ci ha lasciato Primo Levi.

Il secondo tabù che questo libro infrange è il giudizio sociale sui Rom, basato sull’ignoranza e inficiato spesso dalla mancanza di volontà di andare oltre i pregiudizi quando si parla del popolo Roman. Come mai secondo te i Rom sono sempre stati universalmente identificati come il nemico pubblico numero uno, e, diversamente da quanto accaduto agli ebrei, il loro martirio non è bastato a dare loro dignità agli occhi della società?
Penso che la ragione sia da identificare nel diverso atteggiamento dei due popoli verso l’istruzione. Gli ebrei hanno sempre prestato grande attenzione a raggiungere gradi di istruzione elevati, riuscendo così a raggiungere posizioni chiave nella società europea; il popolo rom è sempre stato molto riservato, erano ripiegati su loro stessi e poco interessati a comunicare con le persone che li circondavano. A questo proposito è interessante notare che i due popoli ci definiscono in maniera simile: per gli ebrei, i cristiani sono “goj” e per i Rom noi siamo “gaje”. I Rom vedevano i gaje come nemici perché l’esperienza aveva loro insegnato che dai gaje potevano arrivare solo sofferenze e persecuzioni. Quando arrivarono in Europa intorno all’anno 1000 in Romania furono immediatamente ridotti in schiavitù e questa condizione si protrasse fino al 1865; venivano venduti e comprati come capi di bestiame. Il loro atteggiamento verso di noi è scaturito dal fatto che li abbiamo sempre definiti ladri, assassini, rapitori di bambini. Ciò che ora sappiamo è che sono un popolo con una cultura ricchissima: musica, poesia…

Ma il fatto che si tratti di una cultura esclusivamente orale non rende tutto più difficile?
Si, questo è infatti uno dei problemi principali, ma devo aggiungere che nella loro cultura orale, per quanto indietro i loro racconti si spingano c’è un argomento di cui rifiutano sempre di parlare: l’Olocausto. Probabilmente parlarne li spaventa, temono, facendolo risvegliare altri sentimenti di odio. Penso che sia uno scandalo che non siano mai stati compensati per ciò che hanno sofferto, per le loro perdite, fino ai tardi anni Settanta. È una cosa orribile. Gli è stato opposto che mentre gli ebrei furono avviati ai campi di concentramento per ragioni etniche, loro lo furono per ragioni sociali, ossia, perché non erano socialmente accettabili. Se da una parte i Rom non sono in grado di condividere la memoria delle loro sofferenze, i tedeschi sono stati molto attenti a conservare la memoria degli orrori del passato: i lager vengono mantenuti e conservati in maniera impeccabile e nei loro archivi è possibile trovare tutta la documentazione necessaria a ricostruire il calvario dei prigionieri. Ho fatto molte ricerche nei loro archivi. Penso sia giusto riconoscere che la Germania si è assunta tutta la responsabilità per il suo orribile passato.

La rimozione dei ricordi, la loro negazione sono stati il modo attraverso cui Malika, la protagonista del libro, è riuscita a sopravvivere o una scappatoia per non dover affrontare il disprezzo di sé, il senso di colpa per essere sopravvissuta alla sua famiglia?
Non credo si trattasse di senso di colpa per essere sopravvissuta, quello che ho voluto rappresentare era la sua paura, il terrore che sentiva fin dentro le ossa per i gaje, per tutti noi. Anche noi svedesi, che, per quanto dichiariamo orgogliosamente di non aver mai avuto pogrom nel nostro Paese,abbiamo comunque avuto piccoli gruppi di persone dedite a dare la caccia e tormentare i Rom. Malika ha paura e ne ha tutte le ragioni, Si è fatto un gran parlare della citazione biblica “la verità vi renderà liberi”, ma nel caso di Malika mentire è ciò che la rende libera perché le dà l’opportunità di inserirsi nella società svedese.

In effetti anche le persone che incontra in Svezia, con l’andare del tempo rivelano i loro difetti, una sorta di cattiveria strisciante, come Olof quando lei tenta di aiutare la domma Rom, Anuska seconda e il suo bambino…
Forse quello è il momento in cui si sente più tradita. Èuno dei momenti più intensi della storia è quello in cui Anuschka indica la porta chiusa a chiave dello studio dentistico e dice “non siamo ladri”. È un punto cruciale della storia: non sono ladri, sono poveri, negletti, persone di cui nessuno si prende cura e sta a Miriam farlo.

Come nasce questo libro? Ti sei ispirata a persone reali? Hai intervistato persone di etnia Rom che ti hanno raccontato le loro storie o è il frutto di accurate ricerche e molta fantasia?
Ho un amico, un artista Rom che è stato una preziosa fonte di informazioni sulla culture, gli usi, la lingua Rom. L’ho consultato per ogni minimo dettaglio. Ad esempio una volta che Malika sta parlando di un gatto, mi sono resa conto che non sapevo come lo avrebbe chiamato e ho chiesto a lui, Ho scoperto che per il gatto usano una parola che rimanda al suo graffiare. Ho poi incontrato una donna, a Bruxelles. Ci ha presentati la mia editrice, una donna ebrea la cui zia fu prigioniera a Ravensbruck insieme a questa donna. L’ho intervistata per due giorni e molte delle cose che scrivo nel libro sono citazioni dirette della sua testimonianza. Da lei ho appreso che il lager di Ravensbruck era un manicomio, c’erano risse continue, tafferugli… Poi ovviamente ho letto moltissimo riguardo all’Olocausto in tutta la mia vita. Possiamo quindi dire che i personaggi sono inventati ma ho posto grande cura nel riferire i fatti che sono tutti reali. Ad esempio la rivolta di Auschwitz che ho ricostruito dalla testimonianza diretta di questa donna, e, anche se Malika e il suo fratellino DIdi non c’erano, ogni singolo minuto è stato raccontato come si è realmente svolto. Dalla donna presentatami dalla mia editrice ho avuto tutti i dettagli, come ad esempio il fatto che 4000 persone si sono rivoltate contro le SS avendo come uniche armi un uncino e un coltello. Hanno vinto semplicemente rifiutandosi di obbedire agli ordini e questa credo sia una grande lezione anche per i nostri tempi.

Incontriamo Malika\Miriam nel giorno del suo ottantacinquesimo compleanno, ed è anche il giorno in cui si riconcilia col suo passato e si sente finalmente pronta ad avere una conversazione dolorosa ma necessaria col suo adorato figliastro. Thomas è praticamente il suo unico affetto nel presente ma c’è un personaggio chiave nel suo passato: Hanna. È un personaggio molto complesso e di non semplice lettura, non trovi?
Oh sì! Decisamente complessa! È una donna pragmatica, con un forte senso di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Non è sua madre, ma è il tipo di figura materna di cui Miriam ha bisogno per ricominciare a vivere al suo arrivo in Svezia. Ha bisogno di farsi un’istruzione, di imparare a prendersi cura di se stessa e della casa,ed è ciò che Hanna fa per lei. Ti dirò una cosa che non ho mai detto in nessuna intervista. Ho creato questo personaggio ispirandomi a un‘insegnante che ho incontrato quando ero una giornalista alle prime armi. L’ho incontrata la sera in cui ho bevuto vino per la prima volta in vita mia. Eravamo a una cena e quando mi sono resa conto che avrei fatto meglio ad andare via e ho tentato di alzarmi, ho realizzato che anche un unico bicchiere era stato troppo e sono ricaduta a sedere. Mi si è avvicinata questa donna, anche lei brilla e barcollante, mi ha preso sottobraccio e abbiamo caracollato insieme fuori dal ristorante.

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