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Intervista a Manuel Fondato

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Appassionato da sempre di Storia, Manuel Fondato ‒ già consulente per la comunicazione alla Regione Lazio e caposettore della Presidenza del Consiglio Comunale nell’Ufficio stampa del Comune di Roma, oltre che giornalista per il quotidiano “Il Tempo” ‒ ha realizzato numerosi articoli e interviste proprio a chi gli anni di piombo li ha vissuti dal di dentro, prima di arrivare a scriverne un intero romanzo.




Come nasce l’esigenza di trasferire anni di storie e indagini sul fenomeno del terrorismo nella forma del romanzo?
La formula del romanzo puro mi ha lasciato le mani più libere dal punto di vista narrativo ma sicuramente la storia di quel periodo cupo e controverso mi hanno fornito spunti formidabili. Sono anni che possiedono una drammaticità naturale e alcuni intrecci reali sono effettivamente da romanzo. Nonostante questo a scuola non si fa in tempo a studiare il secondo dopo guerra e questo penalizza molto la conoscenza che ne hanno i giovani.

Paolo e Giulia, protagonisti del tuo Il sonno della ragione, possono considerarsi le due facce della stessa medaglia – generate dall’improvvisa mancanza della figura paterna – di un fenomeno che spesso ci ha raccontato questo drammatico antagonismo fra due ideali?
Paolo e Giulia sono figli dello stesso padre ed entrambi sono sconvolti dalla sua scomparsa. Paolo è il maggiore ed ha assorbito in pieno gli insegnamenti paterni, cresce e si forma con un’idea di Stato e del servizio allo Stato. Ma Paolo impiega poco a capire che l’idea di Stato tramandatagli dal padre è stata ormai tradita da tanti suoi colleghi. Giulia cresce nella ribellione, prima interiore e successivamente esteriorizzata nella sua partecipazione alla lotta armata, anche lei rivedrà le sue posizioni e riconoscerà quanto la sua spinta ideale, pur dalla parte sbagliata, sia stata poi tradita da quei rappresentanti della “rivoluzione” che hanno poi, anche loro, posto il materiale dinnanzi all’ideale.

Perché hai deciso di raccontare quegli anni dal punto di vista di un carabiniere?
Perché è un punto di vista che conosco personalmente, avendo indossato per l’anno di leva la divisa da carabiniere. Inoltre volevo rendere omaggio all’Arma dei carabinieri in generale, hanno protetto e tutelato le istituzioni sacrificando anche molte vite, soprattutto grazie a loro lo Stato ha sconfitto il terrorismo.

Parlando della narrazione, quanto è stato difficile reggere l’impatto emotivo che subisce Paolo nello scoprire che tra i nemici da combattere c’è anche sua sorella, per tutto il prosieguo della sua caratterizzazione?
Anche io ho una sorella minore, fortunatamente diversa da Giulia. Ho provato a immaginare come avrei reagito io di fronte a una verità inconfessabile come quella che Paolo stesso fatica anche solo ad ammettere di aver conosciuto. Per lui sarà un vero e proprio viaggio negli inferi.

Ci sono nel romanzo alcuni omaggi che hai voluto fare a chi gli anni di piombo ha combattuto in prima linea purtroppo soccombendo. Lo stesso cognome di Paolo va in questa direzione. È così?
Ho voluto rendere omaggio a uomini come Carlo Alberto Dalla Chiesa, Domenico Ricci, Emanuele Basile che hanno pagato con la vita il loro servizio alle istituzioni. Sono tutti presenti nel libro anche se con nomi differenti. Paolo si chiama Basile proprio in memoria di Emanuele, giovane capitano assassinato da Cosa Nostra.

Negli anni a venire, sul terrorismo molto si è detto e si è provato a spiegare. Ma quanto sommerso c’è ancora secondo te?
C’è ancora il segreto di Stato su molti fascicoli che aiuterebbero a comprendere molte dinamiche. Basti pensare che dopo 38 anni ancora la Polizia scientifica fa perizie in Via Fani dove rapirono Aldo Moro. La storiografia sarà in grado, se supportata dai documenti e dalle testimonianze che progressivamente emergono, a decriptare molti coni d’ombra che ancora esistono.


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