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Intervista a Marcia Theophilo

Marcia Theophilo
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Marcia è una donna straordinaria. Membro dell’Accademia mondiale di Poesia, è testimonial della Biodiversità per la Commissione Nazionale Italiana dell’UNESCO, dalla quale ha avuto il patrocinio per le sue campagne di educazione e sviluppo sostenibile. Ma patrocini a parte, ha tanti amici che amano la letteratura e sostengono la sua battaglia in favore dell’Amazzonia: dagli ambientalisti e giornalisti Fabrizio Carbone e Gianfranco Bologna agli scrittori e studiosi Hernan H. Mamani e Paolo Coelho, dalla cantante Elisa Toffoli all’artista peruviana Iole Eulalia Rosa, che ha realizzato splendide tavole ispirate alle sue poesie. E c'è anche un gruppo su Facebook che chiede per Marcia il Nobel per la Letteratura...

Tu e l’Amazzonia: un legame atavico...
L'Amazzonia è la mia terra. Mia nonna era india, e da lei ho imparato i miti e le leggende della foresta e l'identità di un popolo. Questa identità mi è rimasta nel cuore. Da grande, per capire meglio la cultura india, sono diventata antropologa. Oggi sono una poetessa antropologa. Le mie poesie cantano quel mondo, quella cultura, lo spirito della foresta, e i suoi cambiamenti negativi, la necessità di salvare quel polmone verde che anima la vita di tutto il mondo, comprese le persone.


Un grido forte il tuo, quasi disperato: perché?
Noi siamo alberi, perché gli alberi della foresta siamo noi. Senza quegli alberi, senza il soffio di quella membrana verde, il genere umano si estinguerebbe, Perciò io canto un'anima che si sta dissolvendo, canto rumori vitali, canto la bellezza della natura, canto il sogno di un ritorno a un mondo pulito, senza inquinamento, ma anche senza crudeltà. Disboscare migliaia di chilometri quadrati di foresta è pura crudeltà. Non solo verso la natura, la vegetazione, gli alberi, la fauna, ma soprattutto verso gli stessi uomini. Tutti sanno, tutti sappiamo ormai, che se la foresta amazzonica scomparisse, scomparirebbe il mondo che si disseccherebbe, e scomparirebbero gli uomini perché non potrebbero sopravvivere alla mancanza di ossigeno.


Dove nascono le tue storie? Che ruolo nella tua poesia ha la memoria?
Yanoà è venuta a raccontarmi una storia, il suo sguardo era colmo di sé e dell’immensità del suo pensiero. Il pensiero correva e il fiume impetuoso l’ascoltava cullando la sua voce. Lei parlava degli animali della foresta che venivano a bere nel fiume, degli uccelli che avevano il colore dei frutti degli alberi sui quali si posavano dei pesci che vivevano nel fiume, le cui scaglie luccicavano sotto lo scintillio dell’acqua e dei popoli che abitavano lungo il fiume, che venivano a pescare nel fiume. Yanoà era la memoria dei miti che quei popoli si raccontavano la sera, attorno ai fuochi dove tutto quello che esisteva era vivo, tutto aveva una coscienza e poteva parlare. Mio padre è nato in Amazzonia, nell’Acre. E Yanoà era sua madre. Nella sua voce mille voci, umane e non, le grandi visioni della foresta e del fiume: l'albero muricí, la liana guaraná, i pappagalli, le orchidee, il fulmine, la musica del vento, i canti di moltitudini d’uccelli, le metamorfosi della luna. Le parole erano incollate nella sua pelle. La memoria di mia nonna era come un dizionario parallelo dove apprendere l’antica vita dell’Amazzonia, dove non esisteva differenza fra quello che diceva e quello che viveva. Da allora le parole respirano naturalmente insieme a me. “Araçá, Yaná, Nacaíra / Cajà, Pacoba, Maçarandúba / ogni parola un essere, parole che scrivo / io vedo un'aria piena di parole / foresta mio dizionario / parole vive e masticate / aspre di cammini già percorsi / Açaná, Tapajurá, Igarapé / ogni parola un essere, risuona affilata”. I racconti, i ricordi si sono poi tramutati in esperienza, un’esperienza che doveva essere trasmessa. Da questi racconti ho appreso il significato del profondo legame con la foresta e attraverso le mie esperienze sono stata portata a studiare le origini della cultura india. Nel mio lavoro ho cercato di operare una fusione tra memoria culturale, tra poesia e documentazione, tra mondo arcaico e mondo contemporaneo, creando un tutt'uno in cui tutte queste materie si compenetrano. In Amazzonia le varietà di specie viventi, gli esseri umani e quelli che vivono nell'invisibile - le divinità e i miti - si trasformano l'uno nell' altro. I bambini vivono nei villaggi in piena libertà. Giocano, e il gioco stesso insegna loro come vivere nella grande foresta, a difendersi dai suoi pericoli. E si divertono ad imitare gli animali: «solleva una gamba il bambino giaguaro / come una coda la fa oscillare lieve / gli altri bambini: ariranha / bambino caititú, bambino pappagallo/bambino macaco / in un circolo chiuso si difendono / salta da un cerchio all'altro agitando la coda / il bambino giaguaro e gli altri gridano / il cerchio si muove/ed ecco, all'improvviso il bambino giaguaro spicca un salto». 
 
E l’acqua che ruolo ha, perché è così presente nella tua poetica?
È dalle acque che emergono le più grandi ispirazioni mitologiche: perché l’acqua è vita, da sempre e anche adesso che l’uomo la sta inquinando. È il linguaggio proprio del canto delle  acque: associazione nitida e fantastica degli elementi concreti e irraggiungibili della natura. Lo spirito del cosmo è naturalmente insito nei fiumi, nei mari. I miti, infatti, sono reali perché attraversano ogni materia e spiegano la ragione di essere del mondo, degli esseri viventi e delle cose, dei fatti passati e presenti. I miti sono popolati da personaggi che incidenti geografici hanno creato o trasformato in esseri viventi, che hanno insegnato tecniche e istituito ordini sociali. Costituiscono un legame fra il mondo terreno e quello trascendente attraverso quel dialogo intimo e naturale che gli antichi popoli stabilivano con l’universo. È così che natura e storia si conoscono e si incontrano. Il Boto, unico esempio di delfino fluviale è anche un mito legato all’acqua e alla seduzione. Vive nel Rio delle Amazzoni e la sua particolare bellezza è dovuta al colore rosa. «Quando nelle sue notti di fuoco Yací spaventata si sveglia / Boto si trasforma / in guerriero e invade il suo letto. Le voci soffocate / nel buio, cresce il silenzio, serpente lui si arrotola / e si avvolge al suo corpo / Poco a poco sale sinuoso, tra le carezze ammorbidendo / l'asprezza delle squame. / Fra i suoi lunghi capelli s'alza dicendo: amore mio / E pietra, è acqua. / Dov'è il suo nido? Navigando fra foglie / archi cipressi lo raggiunge in delirio, / togliendole il respiro: nuvola lei, polpa di frutta matura, / odori selvaggi e colori. / Pensieri senza senso esaltano il suo corpo: / i suoi sensi sette balzi di gatto lascivo, / s'interroga, pensa, singhiozza tra le trecce. / Yacì gli abbraccia le cosce dorate. / Molto lontano comincia il tuo fiume Boto. / In disaccordo s'incrociano sguardi profondi, / Lei cerca forza nelle sue viscere. / Le unghie lacerano i fianchi, le gambe, la schiena di Boto: / Vendetta bramata. / Ascolta il suo nome sussurrato da lui: Yací. / Boto senza rimorso ferisce e lei si scioglie. / Lo cerca nelle notti senza riposo, / nei giorni seguenti arriva inatteso. / Lui appare e lei si esalta. / Cavalli, nidi, uccelli, farfalle, / legni, monti, rami, sfere ruscelli / Boto metà acqua / metà pesce e metà uomo. / Quando ama tocca il fondo del fiume, cavalca travolto / dalle acque, inonda gli arbusti tra le isole. / Yacì stringe le squame fra le braccia / pesce che fugge, sapore di acqua e frutti di mare / Boto, pesce sale-sole-sale. Vita. Respiro». E sono vita le sirene, là dove il gran fiume s’incontra con il mare. In Amazzonia la sirena è la madre d’acqua Yara, Ayara, Uyara, Boiaçu. «La luce appare e scompare nel fondo delle acque/l'odore dei frutti è più intenso uando arriva la notte / gli animali cominciano ad azzittirsi / e dalle acque emerge un canto. Attenti quando Yara vi chiama per nome/sono abissi / Chi diceva questo era una vecchia india / così vecchia / che già non si contavano / le lune della sua età».


Raccontaci dei popoli che abitano la foresta, un mondo così lontano dal nostro, quasi alieno...
I popoli che vivono nella Grande Foresta la abitano da millenni. Le appartengono come le appartiene il Grande Fiume e le sue ninfee. La foresta è un mondo, un organismo vivo che respira, di cui ogni essere, ogni elemento è parte indispensabile: consapevolezza che gli indios non hanno mai perduto. Vivere insieme agli altri esseri in uno stretto rapporto di simbiosi. Questa è la vita degli indios nella foresta, è il grande insegnamento di coloro che non si sono mai considerati padroni degli alberi e degli animali, ma loro compagni. «Nella foresta esistono più occhi che foglie / più cuori che pietre / è la notte dell'armonia / una notte soltanto / una notte dell'anno / e non si sa quale / i cuori di tutti gli animali / si accendono luminosi / scompaiono i corpi / e tante luci vagano nel bosco / quante le stelle nel cielo / è la notte dell'armonia / non si divorano / né si conoscono / si incontrano il giaguaro e il tapiro / il coccodrillo e il pirarucù / il tucano e l'anaconda la farfalla / e l'iguana il falco reale e il macaco / è la notte dell'armonia / per una notte soltanto / nella foresta esistono più occhi che foglie  /  più cuori che pietre».  Gli stessi nomi che gli indios portano sono di fiori o di animali oppure di altri esseri viventi, a rafforzare ancora una volta il legame profondo con la natura. Un fiume può dare nome ad una tribù, così come il nome di un rio può derivare da un pesce, da un frutto, un nome di un albero può definire il nome di una persona, di un mito, così come il canto di un uccello o il verso di un  animale o il suo nome stesso possono dare nome al fiume. Per vivere nella foresta bisogna imparare a trovarsi con le sue meraviglie a convivere con il fantastico, senza timore. Si sa che il vero benessere - e la sopravvivenza stessa del pianeta - dipende dalla capacità che gli uomini avranno di conciliare il progresso con la conservazione della natura. E si sa che, per fare questo, occorre spegnere i motori dei bulldozer e ascoltare la voce di quelli che hanno saputo, senza distruggere, vivere e sfruttare il loro mondo. Una tribù india della foresta amazzonica ha realizzato nel suo linguaggio sedici modi diversi di descrivere il verde. Solo nel profondo di questa foresta si possono coglierne così tante sfumature e significati. Distrutti gli uomini capaci di scorgere sedici modi di intendere il verde, distrutta ogni possibilità di incontro con loro, resteremo per sempre esseri umani per cui il verde è solo il verde. L'umanità avrà guadagnato in velocità di movimento, ma chi può dire che il movimento sia più prezioso del colore? «Il bradipo si muove lento, silenzioso / l’ariranha e il tamanduá / orecchio attento ad ogni rumore. / Gli alberi raccontano la loro storia / La loro vita quando è sommersa nelle acque, / fra i pesci che si nutrono dei loro frutti. / Già nel tramonto si alzano i suoni / gridano gli uccelli storditi / negli alberi i jaburus i macucus gli inhambu».