
In occasione di BookCity Milano 2021 abbiamo fatto una chiacchierata con Marco Amerighi, che ci ha aperto le porte della sua vita (letteraria). Pisano, trapiantato a Milano dal 2013, con un pezzo di cuore in Spagna, Marco è padre, scrittore e traduttore. In questa intervista ci ha parlato di queste due ultime attività, di come si coniughino tra loro, ma anche del suo primo amore: la musica.
Quale valore hanno e hanno avuto la Spagna e Pisa nella stesura di questo romanzo?
Il romanzo nasce da nucleo narrativo che si muove in Spagna e si sviluppa per cerchi concentrici. Alla base c’è un po’ l’idea che Adorno aveva dell’amore: cioè cercare il simile nel dissimile. In questo ho creato personaggi distanti accorgendomi che in realtà erano persone e nei loro confronti ho assunto l’atteggiamento del cronista. Volevo aprire molte finestre: partendo da Madrid (che è un’area di mio interesse perché ero lì fisicamente l’11 marzo 2004, giorno in cui ci sono stati gli attentati) sono andato ad allargare il cerchio, chiedendomi cosa ci fosse di altro, chi fosse Pietro. L’altro nucleo è invece Pisa, che è conosciuta in tutto il mondo, ma solo per una via. Per scrivere sono tornato a Pisa (vivo a Milano dal 2013) e questo mi ha portato a riscoprirla, a indagare la geografia in maniera molto concreta. Credo alla fine di aver scritto una cosa molto naturale: una storia d’amore ai tempi degli attentati.
Cosa pensi che abbia apportato la tua esperienza di traduttore a queste pagine?
È un’esperienza radicalmente opposta. Lo scrittore afferma un’idea, dice “io”. Entra e dice: “Devi seguirmi”. Il traduttore invece non esiste, è una figura fantasmatica che si mette nei panni di qualcun altro, presta la parola e intuisce una voce. Ma per arrivare a questo ci vogliono tempo e lavoro: inizialmente si restituiscono solo le parole e la scelta sintattica. A mano a mano ci si accorge invece che il romanzo ha un proprio respiro. In sostanza, meno si vede il traduttore, più il lavoro è ben fatto. Dello scrittore si sente invece la voce. Credo che l’insegnamento sia stato questo: mettersi nei panni degli altri, di personaggi a cui voglio bene, di cui sono rintracciabili elementi di umanità. C’è stata inoltre un’attenzione lessicale particolare, nel libro s’intuisce infatti un certo impasto toscano. È stata una scelta di responsabilità, dovuta ai libri letti e tradotti. Spesso ho trovato un bel vocabolo o un bel giro di parole, e io ho pensato di fare la stessa cosa.
A me sembra che Randagi, più che la storia della sparizione dei Benati, sia la storia della loro vocazione al fallimento. Cosa ti ha spinto a narrare un’opera del genere?
Sono due situazioni molto simili tra loro. Nella mia testa, questo libro è la seconda parte della trilogia di una scomparsa. Il fallimento s’inerisce nel momento in cui Pietro è a un bivio: da un lato condurre una vita che non lo soddisfa, che non si è scelto; dall’altro rischiare, cercare un altrove. Per Pietro questa scelta è faticosa, perché vede nella sua famiglia la tendenza a lanciarsi in imprese folli, che sono poi il motivo per il quale i personaggi diventano memorabili. Ma Pietro si nasconde perché ha paura: di non essere all’altezza, paura del fallimento stesso, di non essere degno della famiglia. Infatti, appena se ne allontana, cioè quando è a Madrid, fa qualcosa che non ha mai fatto prima: cercarsi e crearsi affetti diversi. Inoltre, il fallimento è un tema ricorrente nella mia vita, in quanto io stesso ho accarezzato l’idea di lasciare. Le nostre ore contate, cioè il mio primo romanzo, l’avevo spedito a tre grandi case editrici. Da parte di una sembrava esserci interesse, ma poi non si è concretizzato e da lì mi è venuto di accantonare ogni desiderio di pubblicazione. Per tre anni quel romanzo è stato dentro un cassetto, e come Pietro ho accarezzato l’idea di lasciar perdere, di non soffrire e fare finta di niente. Poi però il libro è stato pubblicato, e sono tornate la voglia e le spalle per seguire la carriera di scrittore. Quel momento lo ricordo bene, perché appunto è stato, come per Pietro, il bivio della mia carriera: lasciar perdere, adattarsi, o rischiare.
“Randagi” è una parola che è applicabile ai 4 personaggi portanti del tuo romanzo: Tommaso, Pietro, Dora e Laurent. Perché utilizzare questa parola per caratterizzare queste persone appartenenti alla Generazione X e Y?
È stata sia una scelta lessicale sia un’illuminazione immediata. Randagi significa raminghi. I personaggi non hanno infatti punti di riferimento, poiché ci sono episodi che distruggono la loro illusione: il G8, gli attentati di Madrid, i movimenti universitari. Per questo romanzo ho lavorato molto sui randagismi culturali e politici. Ma anche geografici, perché i miei protagonisti sono in preda a una smania, a una danza macabra che li porta dappertutto nel mondo. Inoltre, nel randagio c’è l’idea di controcultura, quando inteso come un outsider, che porta su di sé una connotazione negativa, come per esempio i cani. E c’è anche una certa idea di casa: è un tema centrale, nel romanzo c’è chi la perde, chi la cambia, chi ha un’auto come abitazione. Oggi per me la casa è sinonimo di stabilità, ma attorno ai 20 anni non è tra gli interessi principali, sia in termini economici sia anche solo il “pensare di accasarsi”. E la casa ritorna anche perché questi personaggi randagi, sradicati, hanno una loro idea di famiglia, si muovono in gruppo, formano un gruppo. Poi penso anche che negli ultimi due anni la definizione di famiglia sia stata molto presente nel nostro lessico quotidiano sotto la forma di una parola, congiunti. Mi piace pensare che siamo noi che scegliamo la nostra famiglia, trovo sia un messaggio carico di speranza.
Infine la musica: nel libro ce n’è molta. Volevo sapere da dove viene, come si sposa con il tuo romanzo…
Viene dal fatto che come Tommaso ho un tarlo, che non è quello di morire giovane, ma di fare il musicista. E per un periodo ci ho provato, ma non avevo talento, né ho fatto un percorso classico, perché ho imparato da autodidatta. Poi, quando ho iniziato a scrivere, intorno ai 26/27 anni, ho semplicemente sostituito la scrittura alla musica. È stato brutale, perché poi infatti ho cominciato a scrivere di musica. Infatti il primo romanzo narra di ragazzini che formano un gruppo punk per sfuggire alla noia della provincia. E come ghost ho scritto un’autobiografia degli Zen Circus. In Randagi la musica è sia intradiegetica, perché permette di sviluppare l’azione, sia un filo conduttore. C’è infatti un esergo di Morgan, tratto da Altrove, che poi si connette al discorso precedente del “cercare altrove”. Poi orienta il lettore che come me ha quella passione, quell’aurea nerd e infatti intuisce ad esempio cosa si raccontano i fratelli nelle loro mail. Inoltre la musica è intesa come legame di tessuti armonici all’interno del romanzo. Ascoltando molti gruppi, dal cantautorato ai Motorpsycho, ho ritrovato delle melodie molto empatiche che arrivano al cuore e hanno sia percussioni sia accelerazioni. Ecco, io cerco di rendere queste variazioni e ripetizioni all’interno della pagina, dilato il tempo e rallento la prosa. Più semplicemente, mi piace l’idea del lettore che entra in questa variazione armonica. Oltre a cosa dici è importante come lo dici.