Salta al contenuto principale

Intervista a Marco Malvaldi

La stanza è ampia. Spesse travi di legno al soffitto, mobili che trasudano antichità. Ci ritroviamo seduti contro un’ampia finestra a rimirare una giornata grigia e piovosa al di là dei vetri. Davanti a noi il viso sorridente di Marco Malvaldi, era da un po’ che non ci incrociavamo. Mangialibri aveva intervistato lo scrittore toscano all’alba della sua fortunatissima carriera, quando la saga del BarLume era appena iniziata e la fiction era ancora di là da venire. Lo ritroviamo che è diventato ormai una star della narrativa italiana (senza trascurare le sue incursioni nel mondo della divulgazione scientifica). E così, dopo tanti anni, ci ritroviamo. Stavolta a Firenze. L’occasione è di quelle importanti: l’uscita di un suo romanzo su Leonardo da Vinci, un Leonardo mai visto prima, un Leonardo detective. L’intervista che segue è un mix del nuovissimo colloquio e della chiacchierata di tanti anni fa.

Da dove hai cominciato a esplorare la storia che poi è diventata questo La misura dell’uomo?
Quando ti approcci a Leonardo, ti rendi conto di non sapere quasi niente. Così, ho cominciato con un vero esperto di Leonardo, il Dondi (Dario Dondi, editor delle Grandi Opere Progetto Leonardo presso Giunti). La casa editrice mi ha messo a disposizione opere come i Codici di Madrid e i manoscritti dell’Accademia francese, che sono i più importanti per la mia storia. Mi sono chiesto di quale Leonardo volevo parlare, quindi mi sono detto “Dov’è che Leonardo diventa Leonardo?”. A Milano. Lì, Leonardo viene chiamato come musico, costumista e scenografo per poi farsi conoscere anche come pittore e ingegnere (non diventerà mai scultore, nonostante quanto millantato). In sostanza, ho studiato il modo di procedere, di ragionare, di Leonardo e contemporaneamente la situazione storica della Milano dell’epoca. A tal proposito, grazie agli studi storici del Rossetti (Edoardo Rossetti, docente dell’Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano), ho potuto studiare le lettere dell’ambasciatore di Ercole, il Duca di Ferrara, Giacomo Trotti e capire meglio com’era la vita alla corte di Ludovico il Moro. La base della storia è tratta da una vicenda molto curiosa per l’epoca: nel 1493, dove venivi arso per molto meno di un sospetto, alcuni falsari tedeschi erano stati arrestati a Capiago con la grave accusa di aver falsificato alcune monete per poi essere stati rilasciati come innocenti, dopo solo cinque giorni di carcere e senza aver subito alcuna tortura.

Potrebbe avere qualcosa del detective moderno, questo Leonardo?
Secondo me sì. Uno dei capisaldi della cultura di Leonardo Da Vinci era il procedere per prova ed errore. Costruiva delle ipotesi e le verificava sul campo. Non aveva inventato un metodo sperimentale, ma era in grado di capire se una certa teoria reggeva alla prova dei fatti o no. Verificava, quindi, cercava di trovare analogie e poi vedeva se tali analogie reggevano. Aveva capito che, a differenza del cervello dell’uomo, la natura non mente mai. Quando tu non capisci quello che succede in natura, non è perché qualche dio maligno ti ha nascosto le carte, ma sei tu che non hai capito e devi cercare di leggere meglio.

Quindi, secondo te, è la capacità di osservare i fatti la chiave?
Sì, esattamente, l’osservazione dei fatti e delle relazioni che legano i fatti. Ora come ora, viviamo in un mondo in cui sempre più si sta affermando la facilità di diffondere notizie false che sembrano vere. Secondo me, ora come ora, una delle grandissime doti dell’investigatore dovrebbe essere quella di separare il “si dice” dallo “è successo”. In ambito rinascimentale doveva esserci una difficoltà simile. Era un mondo molto simile per tanti versi a quello dei nostri giorni, in cui saper separare il grano dal loglio doveva essere una delle caratteristiche fondamentali anche solo per sopravvivere.

A seguito di questo lavoro, c’è qualche personaggio storico che ti è venuta voglia di includere in qualche prossimo romanzo?
Sì, c’è. È l’ambasciatore Trotti. L’ambasciatore ti da molte possibilità: è un grande sapiente, qualcuno a cui puoi far spiegare in maniera fisiologica cose non dette a uso e consumo del lettore. Inoltre, come personaggio era estremamente interessante. All’epoca gli ambasciatori erano persone di una certa levatura e, al contempo, potevano rischiare la vita. Non era una vita semplicissima e facile. Quest’omino scriveva tutti i giorni al suo signore mettendo nelle sue lettere notizie spicciole di ogni genere. Ad esempio, lui aveva notato che, di tutte le persone che circondano Il Moro, il meglio vestito è Ambrogio Da Rosate. Capisce subito, insomma, che a corte il personaggio più influente è l’astrologo e raccomanda di mandargli regolarmente della stoffa pregiata per assicurarsene i favori.

Hai trovato sostanziali differenze nel lavorare su un qualcosa che ti viene richiesto? Com’è lavorare su commissione?
Da un certo punto di vista ti trovi meglio, perché hai un punto di partenza sicuro. È un paletto che, però, funge da stimolo più che da ostacolo. In questo caso, poi, la commissione era molto larga. In realtà, si lavora sempre un po’ su commissione. A volte, la commissione riguarda un limite di tempo. In questo caso, invece, ho avuto ampia libertà di tempo e mi hanno messo a disposizione ampi materiali da consultare e ogni genere di esperto del periodo storico in questione. Fossero tutte così i lavori su commissione!

Da chimico a scrittore, il passo è breve?
Da chimico a scrittore... il passo non è così lungo. In primo luogo, perché qualsiasi chimico deve scrivere i risultati delle sue ricerche in articoli che sono, alla fin fine, il reale prodotto del suo lavoro. Quindi, per essere utili, devono essere intelligibili e concisi. Lo scrivere un articolo scientifico ti allena efficacemente ad essere chiaro, conciso ed a scegliere con cura estrema le parole, perché termini che sono sinonimi nella lingua parlata non lo sono affatto da un punto di vista scientifico. (Per esempio, quando sento la parola "teorema" applicata in ambito giudiziario, intesa come "presunzione di colpevolezza da parte del magistrato", inorridisco. Quello non è un teorema, è una congettura. Un teorema è qualcosa di dimostrato in modo inoppugnabile). In secondo luogo, il lavoro chimico ha un sacco di tempi morti, e questi sono utilissimi per fantasticare e per inventare storie. Prova ne sia il fatto che c’è un certo numero di persone che, dalla chimica, sono passate alla scrittura. Primo Levi, Isaac Asimov, Sherwood Anderson... mica nomi da poco.

I vecchietti protagonisti dei romanzi della saga del BarLume possono essere considerati come il coro greco delle tragedie?
I vecchietti, si diceva. Sì, i vecchietti rivestono effettivamente il ruolo di coro greco. Sottolineano tutto quello che succede. A differenza del coro, non sostengono verità assolute e non intervengono sempre a proposito: però, essendo anziani e disillusi, sanno assumere la giusta distanza da alcuni aspetti molesti della vita moderna, come l’eccessivo uso di Internet e la presunzione che la vita sia altrove, e che tutto succeda lontano da te, e intanto che tu passi le serate su Facebook la tua trascurata moglie ti appioppa un paio di sacrosante corna.

Quali sono secondo te gli ingredienti che hanno reso appetibili e tanto graditi al pubblico i tuoi romanzi?
A mio avviso, quello che ha 'preso' dei miei romanzi sono i personaggi, e l’umorismo che ne viene fuori. A volte ridevo da solo a leggere le cose che avevo scritto io... Credo che il dialetto sia un valore aggiunto, ma ho anche la fortuna di aver avuto un battistrada come Camilleri, che ha sdoganato questo genere di scrittura nel mondo contemporaneo, altrimenti non so come sarebbe andata. Per questo, credo che un ingrediente indispensabile del successo sia stato l’aver pubblicato per Sellerio. È una casa che pubblica poco, ma con estrema selettività, e raramente dà delle fregature al lettore.

Hai avuto un immediato riscontro di vendite: emozionato?
Beh, parecchio. Al di là del mero aspetto economico (che conta non poco, perché sono un essere fondamentalmente avido) la cosa che mi ha fatto più piacere è stato sentirmi dire "Ho letto il tuo libro in un periodo di merda, e mi ha fatto passare due ore spensierate". Per un libro pensato come puro intrattenimento, credo sia il complimento più bello che si possa ricevere.

Dove nascono le tue storie?
Le mie storie nascono dall’osservazione di un evento casuale, che mi dà lo spunto per diventare la possibile chiave di volta della storia. Il classico indizio che non significa nulla per nessuno, tranne che per l’investigatore. Da lì incomincio a discutere la storia con mia moglie, andando a cena fuori, di solito. In capo a qualche mese la trama è fatta, e poi c’è solo da far parlare i personaggi. Finora, tra l’altro, la parte debole dei miei gialletti è stata effettivamente la trama: sotto quest’aspetto devo migliorare parecchio.

I LIBRI DI MARCO MALVALDI