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Intervista a Marco Montemarano

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Marco Montemarano è scrittore, giornalista, traduttore, musicista e docente di traduzione giuridica. Nella vita ha fatto di tutto (e anche adesso non scherza), dal chitarrista al tabaccaio, dal barista al venditore di polizze assicurative e addirittura l’allibratore. Vive a Monaco di Baviera dagli anni Novanta, ma la distanza non ci ha certo impedito di fare quattro chiacchiere.

Realtà e finzione in che misura si mescolano nel tuo romanzo Un solo essere?
Il fatto di cronaca nera da cui Un solo essere prende le mosse è stato un detonatore. Ha scatenato in me una serie di riflessioni sul lutto e sulla sua elaborazione. E poi ha fatto nascere il desiderio di scrivere la storia di un personaggio che attraversa le necessarie fasi di elaborazione di un lutto tremendo – talmente tremendo da far sembrare tutto il mondo un deserto spopolato – e di un altro personaggio che invece è immobile da molto tempo su una perdita mai elaborata che ha deformato tutta la sua vita, la sua identità. Mi ha aiutato molto pensare a Marianna (non è questo il suo vero nome), la compagna di Domenico Lorusso, ucciso senza senso né spiegazione in una strada di Monaco il 28 maggio del 2013. Il suo coraggio mi ha ispirato dandomi la forza di arrivare fino in fondo.

Cosa ha significato arrivare in fondo alla stesura?
Arrivare in fondo comporta sempre un’ambivalenza di sentimenti. Da un lato ti senti liberato, hai tutta l’opera irrevocabile e distesa davanti agli occhi, sai che non può più scapparti via. Dall’altro sai che il lavoro più duro e meno creativo deve ancora iniziare, che davanti a te ci sono mesi di faticose rielaborazioni, di tormentose indecisioni. Che le parole andranno e verranno, spossandoti. In questo caso però – dato che ho buttato giù la prima stesura di questo libro come in preda a uno stato febbrile – si è trattato di un piacevole ritorno alla realtà.

È cambiato qualcosa nel modo di descrivere il mondo dopo questo libro?
Ogni romanzo segna per me un’evoluzione irreversibile. Prima di iniziare a scrivere devo convincermi che il libro che ne verrà fuori sia necessario. Necessario soprattutto a me, perché niente sia come prima. Questo libro mi ha di certo acutizzato la vista. La mia percezione della placida città in cui vivo, Monaco di Baviera, adesso è un’altra. Subito dopo però (anzi proprio per questo) ho sentito la necessità di scrivere una storia più leggera. L’ho già fatto, sono arrivato rapidamente alla fine della prima stesura di un nuovo romanzo, e ora sto riflettendo se rielaborarlo o proporlo direttamente al mio editore. Ma se non avessi scritto prima Un solo essere non avrei potuto terminare nemmeno questa nuova opera. Ogni libro ne presuppone uno precedente, in qualche modo.

Cosa significa raccontare oggi e quale secondo il ruolo che lo scrittore dovrebbe avere?
Il romanzo, il racconto, sono sicuramente una forma d’arte. Ma ha anche molto in comune con altre modalità di riflessione sul mondo e di descrizione di esso che non sono artistiche. Trovo che l’arbitrarietà con cui un autore può permettersi di descrivere tutto dal suo punto di vista (o da quello di un suo alter ego), il fatto di non essere sottoposto alle regole e al linguaggio, ad esempio, della speculazione filosofica, della logica o del discorso scientifico, sia un fatto molto umano e necessario alla nostra cultura. Ognuno di noi “si racconta” continuamente la propria storia, fatta di una selezione arbitraria e personalissima di eventi visti da una particolare inclinazione, da un particolare punto di vista, ed è importante che sia così. Senza questo raccontarsi non ci sarebbe l’identità. Il fatto che ci sia chi lo fa per mestiere, chi sa codificare, utilizzare, violare e rinnovare continuamente le regole del raccontare e del raccontarsi (meglio se lo fa evitando di seguire troppo le mode e i generi), è importantissimo. Per questo il romanzo continua ad avere senso e seguito.

Cosa spinge in generale a scrivere?
La speranza, che ormai in me è quasi una certezza, di saperne di più. Uso la scrittura non come una documentazione di me stesso e del mio mondo interiore ma soprattutto come uno strumento per perfezionarmi. Al tempo stesso, certo, quello che scrivo è la testimonianza di una temperie, di un momento della mia vita. Approfondisce il senso di una determinata fase della mia esistenza.

Cosa è rimasto fuori da questo romanzo?
Avrei potuto sviluppare il discorso sul lutto e sulla sua elaborazione in molte altre direzioni, esemplificandolo in altri modi, illustrandolo con altri episodi. Ho dovuto impedirmi di farlo. Non volevo che tutto il libro rimanesse fermo a quest’unico aspetto, sarebbe stato un libro statico. E poi avrei potuto raccontare ancora di più quegli anni che sono il mio territorio mitico, gli anni Settanta. Anche in questo caso ho dovuto impormi una disciplina, limitarmi a quanto era necessario alla storia che avevo deciso di raccontare, o poco di più. Infine c’è un personaggio – Massimo, l’io narrante della vicenda, un ragazzone romano molto temperamentale – che minacciava continuamente di debordare e invadere troppo la scena. “Statti zitto!”, ho dovuto dirgli a volte. Scrivere un romanzo è anche un lavoro di governo e autodisciplina.


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