Salta al contenuto principale

Intervista a Maria Venturi

Maria Venturi
Articolo di
Il parco di Villa Guerrazzi a La Cinquantina, a Cecina (LI) è l’elegante sfondo di questa intervista che tanto abbiamo aspettato e che la premiata ditta in questione ha messo su in una sera di inizio agosto - neanche tanto torrida. Sul palco della manifestazione letteraria Parco Di Autori è ospite Maria Venturi, sceneggiatrice-culto della soap “Incantesimo”; autrice di numerosi romanzi, alcuni dei quali si sono trasformati poi in fiction televisive ed ex direttrice di note testate giornalistiche. La scenetta funziona a meraviglia: Elena fa domande dal palco, Sara dal pubblico. Tutto programmato, ovvio. E la Venturi, professionale, ma molto disponibile, si lascia intervistare con eleganza e senza nascondere niente.

Quanto di Maria giornalista confluisce nella Maria scrittrice e viceversa?
Non essendo schizofrenica o con personalità multipla devo dire che tutti e tre i lavori compenetrano e sono in qualche modo collegati. Il mestiere che prediligo è quello di giornalista: io ho diretto delle testate e continuo a collaborare e scrivere anche con “Il Messaggero”. Scrivere di donne, coppie e sentimenti e amori è stata una conseguenza dettata dal fatto che ho collaborato per molto tempo proprio con testate femminili. Scrivo con una certa cognizione di causa perché credo di aver conosciuto bene il mondo femminile e l’ho vissuto in pieno con la stagione del femminismo stesso anche da giornalista; le battaglie che ci sono state; la riforma del codice del diritto di famiglia. Ad essere sincera, invece, la fiction è stata una fortuna (perché anche quella nel lavoro ci vuole). Infatti, l’allora direttore di Raidue, Giampaolo Sodano, comprò da tre miei libri i diritti e li indirizzò alla filiera della grande fiction. Non a caso, per un certo periodo, Raidue si connotò come rete di fiction per eccellenza. Ed è con Sodano che cominciai a scrivere Incantesimo che è stato il mio primo lavoro fatto appositamente per la televisione. 

 

C’è una bella storia che ti riguarda che non tutti conoscono: a 21 anni inviasti un racconto all’Einaudi - come molti giovani scrittori fanno anche oggi - e ti rispose un personaggio degno di nota…
Io scrissi proprio a lui! Adoravo Italo Calvino e sapevo che era una persona molto autorevole e franca nei giudizi. Scrissi le prime 90 pagine di un libro e poi, poiché per mia inclinazione personale, non desidero mai cose che non posso avere, che sono impossibili o che non sono in grado di fare, gli mandai queste cartelle chiedendogli cosa ne pensava e se valeva la pena che mi dedicassi alla scrittura. Aspettai con ansia la sua risposta. Quando avevo quasi perso le speranze, mi rispose incoraggiandomi ad andare avanti. Poi le vicende della vita… dovevo studiare, finire l’università e, nel frattempo, ebbi un posto alla Rizzoli, con la quale già collaboravo come autrice di racconti. E allora il sogno di diventare scrittrice si concretizzò un po’ più tardi, nell’84/85 quando scrissi La storia spezzata.
  

Tra l’altro La storia spezzata è diventato anche uno sceneggiato…
Sì, con Barbara De Rossi, anche se ormai appartiene un po’ alla preistoria…  

 

Ma viene comunque riproposto puntualmente, segno che quando la fiction è scritta bene, è un prodotto molto godibile e funziona, no?
È una storia ancora attuale. Una storia di una coppia che va in crisi perché lei non può avere figli e commette l’errore di molte donne, ovvero quello di considerare sterile un matrimonio perché non ci sono figli. Quando non è così, un matrimonio va avanti anche quando resta la coppia. 

 

Essendo stata vicina alla questione del femminismo da giornalista, come ci hai ricordato prima, potresti dirci qual è l’aspetto della donna che più ti colpisce e ti piace mettere nei tuoi libri?

Nel mio libro La vita senza me c’è - forse per la prima volta - un personaggio maschile molto forte e molto valido. Più in generale, mi piace proporre donne con un grande valore morale e rispetto di sé e del prossimo, anche se questo può sembrare retorico o fastidioso. Scrivo di donne che capiscono, che non hanno tutto gratuitamente, che lottano per avere e per raggiungere i traguardi. Nei miei libri ci sono donne che attraversano e affrontano i problemi di coppia, di tradimento, di rottura, di riconciliazioni o anche problemi giovanili. Propongo sempre donne che ci possono in qualche modo indicare un percorso, donne esemplari. Mi piacciono le donne che mantengono una loro etica e una loro capacità di volare alto, una caratteristica alla quale forse una volta si guardava di più.  

 

Ci dici qualcosa in più di Sally, la protagonista de La vita senza me?
Questo libro affronta molti temi, ma sostanzialmente può essere letto in un’ottica di favola. Apparentemente. Sally è una guardarobiera che incontra un re della moda. Lui si innamora di lei e sembra che tutti vissero felici e contenti. Lei all’inizio della storia ha 26 anni, lui 35. In realtà, sono due persone diverse per estrazione sociale, tutti e due vittime di un’enorme ingiustizia. Io parto dal presupposto che la vita dipende da tante cose, ma credo fermamente che chi fa veramente del bene e vive nel bene alla fine è premiato; chi vive facendo del male alla fine paga un prezzo. Il male torna indietro come un boomerang. In questa favola apparente, c’è una ragazza adolescente che è scappata di casa per via di due genitori anaffettivi e cade nella trappola di una relazione giovanile con un ragazzo sbandato e tossico. Lei resta incinta e i genitori di lui le fanno prendere le distanze. Quando al ragazzo sbandato mettono in mano un bolide  e resta vittima di un incidente, i genitori di lui rivorrebbero la nipote, l’unica cosa che resta loro del figlio. Con l’inganno gliela portano via e così Sally si rinchiude nel guardaroba osservando le cose, le persone e i fatti che le scorrono davanti. Uno dei frequentatori di questo locale è un re della moda, vittima di un’altra profonda ingiustizia: una moglie devastante, che dopo il divorzio le ha messo il figlio adolescente contro. Lui pur di non perdere questo figlio lo asseconda e si lascia ricattare dalla moglie. Quando si innamora di Sally, il suo cruccio principale resterà comunque quello di riconquistare la stima del figlio e lei lo aiuterà con tatto e rispetto, sacrificando il loro amore che resterà da parte. Lui la aiuterà a tirare fuori il suo passato angoscioso e a ritrovare la bambina che pensava perduta. È una storia che affronta, dunque, molti temi: il disagio giovanile, l’utopia delle famiglie allargate che devono per forza funzionare. Qui c’è una donna con una struttura etica ben radicata e c’è un uomo che ha una profonda moralità, è un uomo che non vive di utopie, che non vuole fare atti di forza. 
  

Una figura maschile bella e complicata allo stesso tempo che, dunque, ti ha conquistata…
Mi è piaciuto, ho scritto questo romanzo dopo un problema di salute, l’ho tenuto lì per 5 anni e l’ho studiato, scoprendo così il potere catartico della scrittura, mi ha enormemente aiutato e contagiato positivamente. Quando costruisci personaggi che ti piacciono ne resti contagiata.
 

In questo ultimo libro, è stata la storia a fare da padrona o i personaggi che te l’hanno raccontata?

Io costruisco dei personaggi e faccio una scaletta immaginaria  iniziale (nomi, età, fisico…). Non riesco a scrivere un libro se non ho un titolo. Poi gli compongo addosso una storia ideale. A volte mi capita, arrivata a metà libro, quando gli eventi dovrebbero prendere una determinata strada, che se i personaggi sono ben riusciti ti prendono la mano. Così capisco se la strada degli eventi che sto segnando per loro è corretta oppure no. E a volte mi accorgo che una certa strada non è quella giusta per i personaggi, sbaglierei a prenderla comunque, sono loro che mi dicono che non vogliono. Quando riscrivo al computer la storia e la rileggo, mi emoziono e sento che i personaggi godono di vita propria. È come Geppetto con Pinocchio che ha una personalità straripante e che sfugge: l’autore è un Geppetto che quando fa i suoi burattini, essi poi tendono a diventare carne.
 

Come è stato conciliare vita privata di madre (e adesso anche nonna) con la carriera professionale?
Diciamo che è stato bruttissimo perché io sono convinta che conciliare sia difficile e bisogna sempre sacrificare qualche cosa. Le mie figlie ancora adesso che sono donne non mi perdonano di averle trascurate, anche se nel tempo abbiamo recuperato il rapporto. Quando una persona lavora molto, è difficile essere un buon genitore. Ai miei tempi si diceva che ciò che conta non è la quantità, ma la qualità. Beh, io trovo che nel fare i genitori la quantità del tempo sia la qualità. Un genitore dovrebbe stare tutto il giorno con i suoi figli in modo da avere anche il tempo di rimediare per un rimprovero fatto male. Io mi sono persa tante cose delle mie figlie. Io sono nata in una brutta generazione, quando si sosteneva che il lavoro fosse un diritto, e lo è, ma non è il successo. Devo ammettere che forse sono stata un po’ troppo ambiziosa e avrei dovuto rinunciare a qualche cosa, anche se il lavoro ti dà il benessere. Adesso il mio essere nonna lo vivo come una riparazione. Credo di essere adesso una buona nonna, anche se ancora oggi sono molto occupata, ma sicuramente sono meglio di come sono stata madre. Lavorare per me era comunque una necessità, perché ho avuto l’annullamento del mio primo matrimonio da giovanissima ed ero sola con due figlie da crescere. Per conciliare le due cose occorre un equilibrio difficilissimo che forse trenta, quarant’anni fa non c’era. Negli anni Settanta e Ottanta si andava avanti come panzer. 

 

C’è una differenza di approccio tra scrivere un romanzo e scrivere una sceneggiatura?

Assolutamente sì! Perché nel libro tu puoi dire: “Paolo è buono.” E il lettore ha capito. Nel libro c’è un rapporto interattivo. In questo caso lo scrittore scrive una cosa e il lettore ci crede, se la immagina. Quando scrivi per la televisione non basta dire: “Paolo è buono”. Devi per forza far fare qualcosa al personaggio perché si capisca che è buono. In televisione non c’è la descrizione, si deve vedere tutto, per cui è una scrittura molto più esemplificativa. Una scena non può durare più di dodici secondi, deve essere incalzante. Questo per quanto riguarda il lato tecnico. Poi c’è un altro fatto: il lavoro di scrittore è un lavoro solitario, io rispondo al mio editor (e in questo caso io sono molto fortunata perché è molto bravo e ha stima di me) e poi ho i miei lettori ai quali devo rispondere. Se un libro non vende, è andato male. Per la televisione si lavora in gruppo e, più il lavoro è lungo, più puntate ci sono, più dura, più ha successo, più sono le persone coinvolte e più dilagante è la filosofia “piatto ricco, mi ci ficco”. Devo dire la verità, il lavoro d’équipe ha i suoi pro e i suoi contro: è vero che c’è da perdere i cervelli perché ognuno vuole sempre dire la sua, ma è altrettanto vero che se un lavoro viene male o bene, il merito o il demerito non è mai del singolo. È vero spesso le cose vengono censurate, fatte, rifatte ed ignorate. Tuttavia, preferisco lavorare da sola. Personalmente preferisco scrivere il romanzo e poi che loro lo adattino per la televisione perché mi risulta faticoso, sono sbrigativa e non reggo tutte quelle riunioni. 

 

Non è che dovremo aspettare altri 5 anni per il tuo prossimo lavoro, vero?
No, assolutamente. Io dovrei consegnare in novembre il mio prossimo lavoro, è in gestazione. Sono un po’ deconcentrata, ma quando prendo il ritmo lavoro anche 20 ore di seguito: mi alzo, lavoro in pigiama fino alle due del pomeriggio, mi faccio una doccia e continuo a lavorare anche fino alle 3 di notte. Quando comincio a lavorare non smetterei mai. Appuntamento a gennaio o febbraio dell’anno prossimo.