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Intervista a Mariangela Mianiti

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Mariangela Mianiti, scrittrice con all’attivo due romanzi (Anche il caviale stanca e Organsa) e due libri inchiesta (Una notte da entraîneuse e La vita Viagra - Uomini, pillole, sesso e relazioni), giornalista con all’attivo due premi (Cronista dell’anno 2003 e Premio Maria Grazia Cutuli 2005) è nata a Parma e, tra le altre cose, ha un passato da pianista. Il suo ultimo romanzo è già alla seconda edizione ed è in finale al Premio di narrativa nazionale Bergamo che verrà assegnato il prossimo 19 giugno. La contatto al telefono per parlare proprio di questo libro. La foto è di Maria Cristina Vimercati.




Ci si sente quasi dei traditori, degli impostori ad avere a che fare direttamente con la persona della quale abbiamo conosciuto pensieri reconditi, fragilità e ferite: leggendo Organsa, entrando nella casa della protagonista Aurelia, abbiamo l’impressione di essere entrati nella casa dell’autrice, quantomeno nella dimora delle sue sensibilità, tanto è stata capace di creare un canale di comunicazione col lettore. Perché hai aperto quella porta, la testimonianza di un mondo, l’attenzione alle trasformazioni sociali - già presente con contorni diversi in Una notte da entraîneuse - o un esercizio necessario per te stessa?
Penso che gli scrittori siano dei ladri. Ladri di storie, di fatti, di gesti, di vissuti propri e altrui. Anche scrivere di se stessi è una specie di furto perché nel momento stesso in cui si trasforma un pensiero, un ricordo, un evento in una narrazione gli si dà una forma nuova, un linguaggio che esce dalla dimensione intima e diventa pubblico, di tutti e di tutte. Gli scrittori, dunque, osservano, rimuginano, pensano, rielaborano finché qualcosa li spinge a scrivere. Può essere una frase, un dialogo, un particolare insignificante, l’importante è scriverlo. Da lì può succedere di tutto. Quello stimolo può restare chiuso in un taccuino per anni, ma intanto lavora nell’inconscio finché arriva un momento in cui si desidera farlo proseguire e dargli una forma. Nel caso di Organsa tutto è iniziato con una fotografia che ritraeva due donne non più giovani, una vecchia madre e sua figlia. Di ritratti così ce ne sono milioni, miliardi al mondo perché chi non ha una foto con la propria madre? Eppure lì, nel loro modo di stare vicine e nello stesso tempo distanti c’era una crepa che urlava, che chiedeva di essere scavata. Allora ho scavato, ho aperto gli abissi della cattiveria che può esistere in una famiglia, perché i genitori cattivi esistono, così come esistono i nonni cattivi. Ho scavato mettendomi nei panni di una bambina, perché i bambini vedono e capiscono tutto anche se sono molto piccoli e ognuno di noi, se vuole, può ritrovare in se stesso il proprio sguardo bambino, quello sguardo che vede e può raccontare ciò che sa in modo limpido e nello stesso tempo spietato.

Luisa, la madre della protagonista, vive in una casa scombinata spostando, finalmente libera, l’ordine degli oggetti affastellati come fossero pedine che prima non aveva mai potuto muovere a proprio piacimento: ricomporre gli accadimenti in Organsa è stato anche per te un cercare un ordine alle tue mosse?
No. Fin dal primo momento ho avuto chiaro che non ero io quella storia, ma la sua narratrice. Dar vita a dei personaggi, farli parlare, agire, decidere la sequenza dei fatti è un processo duale, nel senso che da una parte i protagonisti e la vicenda si impossessano di te entrandoti dentro, dall’altra sei ben consapevole che sei tu a decidere. È un gioco fra due potentati che si studiano e compenetrano a vicenda, come in un corteggiamento, come in una danza. Funzionano se si parlano e ascoltano, ma ognuno deve mantenere la propria unicità che, nel caso di un romanzo, è anche una unicità di ruoli. Insomma, bisogna possedere lasciandosi possedere.

In Organsa lo sguardo al padre operaio contadino è pieno di indulgenza, come fosse lui stesso vittima di un’anaffettività non innata, ma frutto di una proibizione all’affettività. È così?
È così. Il padre della bambina narrante, Aurelia, appartiene a quella generazione di italiani che hanno avuto un padre/padrone. Prova a essere un genitore diverso, e per molti aspetti ci riesce quando, per esempio, si ammazza di lavoro per permettere ai figli di studiare, cosa che a lui è stata negata. Però quella ferita originaria ha lasciato il segno e torna evidente nel modo a volte inclemente con cui tratta il proprio figlio maschio. È come una linea del danno che si ripercuote di padre in figlio, di generazione in generazione finché non arriva un evento a rompere quella consuetudine. Però le macerie sul terreno restano, e sono macerie che segnano le persone con cicatrici perenni. Aurelia vede quelle cicatrici, non può toglierle, a volte non capisce come curarle, ma non vuole ignorarne le conseguenze.

Lo stile del romanzo è netto, preciso, essenziale, se ci fosse del grottesco nel tuo scrivere verrebbe in mente Piero Chiara, se fosse raccontato in terza persona, Simenon: niente sfarfallamenti, i fatti parlano da soli, è sufficiente il punto d’osservazione. Non hai fatto ricorso agli stilemi in voga del (detesto questo termine) “romanzo al femminile”. Coraggio nello sfuggire alle facili vie del mainstream?
Di mio, come direbbero alcuni personaggi di Organsa, sono un po’ “sgrusa”, ruvida, diretta, caratteristica molto comune nel luogo dove sono cresciuta, la Bassa parmense. Ho sempre scritto, anche nel giornalismo, senza girare intorno alle cose perché mi piacciono il linguaggio e i comportamenti limpidi, senza sfarfallamenti, come dici tu. Trovo che in questo modo si dia alle persone, e al lettore, la libertà di scegliere e decidere se gli piaci oppure no, se si ha voglia di frequentarsi o è meglio lasciar perdere.

Tutta la tua attività, essendo scrittrice e giornalista, è ovviamente incentrata sulla scrittura. Ma che lettrice è invece Mariangela Mianiti?
Onnivora con una predilezione per la narrativa (ma ora sto leggendo Pianura di Marco Belpoliti e ho appena finito La signora Bauhaus di Jana Revedin), con innamoramenti profondi per il romanzo ottocentesco (ho una passione per Balzac e Jane Austen), selettiva (non mi piace un’autrice italiana molto famosa nel mondo ma non farò il suo nome nemmeno sotto tortura), periodica (ricordo certe estati sprofondata in Dostoevskij e Tolstoj, oppure quell’inverno in compagnia di Henry Miller e poi Carver e Dashiell Hammett, Faulkner, Fitzgerald, Philip Roth), curiosa e disponibile al disimpegno (dopo il bellissimo e intenso L’altra Eszter di Magda Szabó ho tentato di rilassarmi con Cambiare l’acqua ai fiori ma... lasciamo perdere), umorale nel senso che è il mio desiderio del momento a portarmi verso un libro piuttosto che un altro.

Non so se ritieni Organsa una storia che attiene solo ad una vicenda singolare; personalmente credo che il tuo romanzo sarebbe perfetto per una riduzione a fiction televisiva, un’operazione di coscienza nazionale che partendo da una storia privata (e qui mi vengono in mente, con tutte le differenze, La mafia uccide solo d’estate e Un matrimonio di Pupi Avati) ripercorre i mutamenti sociali: l’hai considerata questa possibilità?
Caro Fabio, potessi decidere io direi subito sì. Anche a un film, ovviamente, ma il cinema e le serie televisive sono macchine molto complesse, devi prima trovare i produttori che decidono di investire e acquistare i diritti del libro (cosa non così scontata), o un regista che si innamora della storia, e poi ci sono i tempi di realizzazione che possono avere mille intoppi. Vero è che molti lettori mi hanno detto la stessa cosa perché dicono che leggendo Organsa gli è sembrato di “vedere” così da vicino i luoghi e di essere così dentro le situazioni che finiscono il romanzo in due giorni. Pensa te, ho impiegato dieci anni a trovare un editore e i lettori ci mettono due giorni a leggere il libro. Come direbbe il padre di Aurelia: “È stata una roba longa abòta, veh, mo a la fin fine sum cuntent”.

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