
Mariapia Veladiano, vicentina, amante della montagna e delle piante, laureata in filosofia e teologia, prima insegnante e poi Preside, giornalista e saggista, si affaccia alla narrativa nel 2010 vincendo il Premio Calvino con La vita accanto. Da allora non si è più fermata. Con il suo stile limpido si prende cura dei personaggi, illuminandoli a pieno. La ringraziamo per aver accettato di condividere qualche suo pensiero con Mangialibri.
Sei uno dei pochi autori che possono esprimere un parere e decidere la copertina dei libri. Come hai fatto a conquistarti questo privilegio? Nella stesura del romanzo già hai idea dell’immagine e dei colori?
È vero! Le case editrici hanno i loro grafici e soprattutto degli standard di copertina che rendono riconoscibile la collana o la stessa casa editrice. In realtà per me il pensiero per la copertina corre parallelo alla scrittura. Cerco immagini, o le “noto” se mi vengono incontro, e faccio delle prove, prove artigianali, con word. Titolo, copertina e storia sono un’unità, si rimandano l’un l’altro.
Nei tuoi romanzi ci sono piante, colori, profumi, fanno parte anche della tua vita quotidiana?
Sì. Amo i fiori e li coltivo e regalo. Da mesi sto ristrutturando un vecchio appartamento per farne uno studio di scrittura. È un cantiere polveroso e dall’aspetto scoraggiante, naturalmente non ci abito, ma il balcone è vivo, colorato, pieno di fiori. Mi sono annunciata alla casa con i fiori. E anche i profumi. Io sento gli odori. Tutti. Sai che ci sono persone che non li sentono? Microsmatiche, si dicono. Ecco, invece a me capita di sentire tutto, un’abilità antica, primitiva. E così è normale accompagnare la narrazione con i profumi e gli odori dell’ambiente e delle persone. Poi, un gioco ormai, è quello del “profumo del romanzo”. Ogni romanzo è associato a un profumo che un’amica profumiera di Vicenza mi aiuta a trovare. Lei è Carla Chemello, ha un bellissimo negozio vicino alla Basilica palladiana e soprattutto è amica di una vita. Per Adesso che sei qui abbiamo scelto a distanza, per la pandemia. E ne ho due, quello che ci è sembrato giusto mentre eravamo chiusi in casa e quello scelto poi in presenza. Più adatto. È Blanche Poudre, di Heeley. Talco, come i profumi di zia Camilla, la protagonista del romanzo. Per il primo romanzo, La vita accanto, il profumo era la lavanda di Caron. Era il profumo della mamma di Rebecca. Ora non lo producono più. Un peccato. Un profumo meraviglioso.
Accogliere è un verbo che ti si addice particolarmente. Lo hai fatto con gli studenti e lo fai delineando i tuoi personaggi. Concordi?
Sì. Accogliere vuol dire allargare la propria visione del mondo, farsi portare dove non sappiamo. Viene dall’esperienza di scuola. Bambini e ragazze sempre diversi, sempre più da tutto il mondo. Sempre più interessanti, e poveri, e tristi ma pronti a riparare le loro vite se trovano hi li accolga appunto. Se si conosce scatta l’empatia, il riconoscersi nella comune umanità. Credo che nel mio caso all’origine ci sia la consapevolezza di essere nata nella parte fortunata del mondo. Senza merito. Fratelli e sorelle sono nati nel bisogno. Accogliere è esercizio di fratellanza. Per questo ci vuole una politica alta e nobile. Perché non basta la buona volontà individuale. Serve una visione complessiva, capacità di rendere partecipi i cittadini dei problemi e delle soluzioni. Trovo davvero sbagliata e anche politicamente scorretta la frase che si sente spesso: “I migranti se ti piacciono tanto portali a casa tua”. È sbagliata perché in modo subdolo agisce sul senso di colpa di non fare abbastanza, e il senso di colpa non serve ad avere idee nuove e buone. È scorretta politicamente perché per un problema epocale come le migrazioni non si può rimandare al cittadino da solo. È una questione di politica alta, politica nobile che dialoga con il mondo per trovare soluzioni a problemi complessi.
Gli studi teologici, la tua personale religiosità traspaiono dai libri, senza mai essere prevaricanti o supponenti, è un freno che ti metti o sei consapevole che non ci sia bisogno di farlo?
Grazie. È un complimento. Non sono programmaticamente attenta a non far prevalere il teologico, no! Una preoccupazione di questo tipo sarebbe qualcosa di esterno alla scrittura che la condiziona. È che credo davvero che la teologia incontri la realtà più bella e profonda dell’uomo. La comune umanità è quella che misura anche la verità del discorso su Dio. E comunque la forma narrativa è la forma della Rivelazione.
I tuoi personaggi sia femminili che maschili sanno di vita vera. Da dove prendi spunto?
In realtà solo l’ultimo romanzo, Adesso che sei qui, ha preso origine da una storia vera che mi è stata affidata e della quale ho cercato in ogni modo di rispettare la dimensione affettiva profonda. Ma anche in questo romanzo i personaggi hanno vita propria, sono liberi di seguire le regole della narrazione che cerca l’universale oltre la storia particolare, per cui alla fine molti di loro si allontanano tantissimo dalla storia vera da cui il racconto è partito. In generale però non uso persone facendole diventare personaggi. Sarebbe facile, quarant’anni di scuola, quante persone incontrate! Ma non mi viene proprio. I personaggi nascono da sentimenti che intercetto. La paura della bambina brutta, paura di non essere accettata, e nasce Rebecca de La vita accanto. L‘umiliazione del proprio sentimento non riconosciuto, perché il seduttore vede solo il proprio potere, e nasce Bianca di Una storia quasi perfetta.
Che rapporto hai con l’ironia?
Un disastro. Non sono ironica. Un handicap.
Quando scrivi o rivedi i tuoi testi, ascolti musica e se sì quale?
No. Ascolto musica, ma non quando scrivo. Scrivo spesso in mezzo al rumore, in treno, al bar, in situazioni davvero poco musicali!
Le emozioni, le domande e l’affetto che ti dimostrano i lettori quando li incontri, li custodisci per te o… li metti nei libri?
Li custodisco. Non metterei mai la fase di un lettore o di una lettrice in un romanzo. Mi sembrerebbe un furto. Ma in generale davvero scrivo seguendo la storia che sta nascendo e non rubando alla realtà. Certo che tutta la realtà entra nella vita, filtrata, e diventa parte di noi. Per questo in un modo o nell’altro ogni scrittura nasce dall’esperienza. Ma può essere un’esperienza interiore, che viene da un ascolto largo del mondo.