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Intervista a Marilena Delli Umuhoza

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Marilena Delli Umuhoza è scrittrice, fotografa, documentarista e produttrice musicale. Assieme al marito Ian Brennan ha lavorato con numerosi artisti di strada dei Paesi meno rappresentati come Rwanda, Malawi e tanti altri. Nei suoi libri ha dato voce al problema del razzismo attraverso la sua esperienza di “nata, cresciuta, insultata in Italia”. Non potevamo lasciarci sfuggire l’occasione di scambiare quattro chiacchiere con lei: con grandissima simpatia e disponibilità, l’autrice italo-rwandese non si risparmia e ci racconta qualcosa di più sulla sua poliedrica carriera, sulla sua scrittura e sul suo ultimo libro.




Sei fotografa, regista, scrittrice, produttrice musicale. Come convivono le tue molte passioni e come ti sei avvicinata alla scrittura?
Ho scritto la mia tesi triennale sul cinema africano – in realtà avevo pensato di scriverla sul cinema italiano –, ma di materiale non ce n’era all’epoca in italiano sul cinema africano. Questo per spiegare le origini della mia passione per il cinema e la regia. Dopo la laurea ho seguito dei corsi di regia specializzati sul documentario alla UCLA di Los Angeles. Lì ho avuto la fortuna di incontrare quello che sarebbe diventato il mio futuro marito, Ian Brennan, che è un grande appassionato di musica e a sua volta un produttore musicale. Produceva musica di artisti soprattutto folk americani, io l’ho avvicinato all’Africa e insieme abbiamo iniziato a produrre musica nel 2009. E siamo qui, trenta album dopo di artisti internazionali. Abbiamo iniziato a lavorare soprattutto con artisti di strada dei paesi meno rappresentati, a partire dal paese di mia madre, dove abbiamo scoperto e prodotto i “Good Ones”, un trio che ingloba le tre tribù del Rwanda e che parla soprattutto di amore. Lavoriamo anche con altri paesi come il Malawi, il Sud Sudan, Vietnam, Cambogia, tutte zone poco rappresentate, perché secondo me il problema del razzismo esiste anche dal punto di vista musicale. Abbiamo la possibilità di fare piccoli documentari sulla realizzazione dell’album e poi video di canzoni specifiche, oltre alle foto che saranno la vetrina dell’album. Tutto questo è anche un atto di amore. Da ragazza ho scritto tantissime poesie, ho sempre letto e scritto molto, però ho trovato il coraggio di pubblicare qualcosa nel 2016. Avevo letto l’ennesimo episodio di una barca nel Mediterraneo in cui avevano perso la vita centinaia di migranti, il che ha tirato fuori una rabbia latente che avevo fin da quando ero piccola e che è emersa con la scrittura. In realtà ho cominciato a scrivere per me stessa e man mano che scrivevo mi sono accorta che la mia voce forse era anche la voce di tanti altri ragazzi che come me erano nati e cresciuti in Italia, che avevano origini straniere e che non avevano forse mai letto niente al riguardo. Io avevo sempre letto dell’Africa e dell’immigrazione ma erano testimonianze riportate, mai di seconde generazioni. Forse in questo modo, scrivendo qualcosa in cui potessero sentirsi rappresentati, avrebbero potuto leggere di quello che stavano vivendo, sentire che non erano soli e magari anche sorridere, perché l’ho fatto anche in chiave abbastanza ironica. Con dati precisi, ma anche con il sorriso. Ho deciso di scrivere quindi questo primo romanzo, che è stato accolto positivamente dalla critica. Questo perché romanzi con donne nere italiane, con un background come il mio, nate cresciute e insultate in Italia, io non ne leggevo e tuttora scarseggiano. Non ho mai trovato nessun modello nero positivo in cui riconoscermi, vuol dire crescere sentendosi completamente diversi dagli altri. Il nero era sempre associato a qualcosa di negativo. Secondo me oggi è necessario dar voce a tutte queste seconde se non terze generazioni che hanno bisogno di vedersi rappresentati nell’arte, nel cinema, nella musica, nella cultura in tutte le sue forme. Mia mamma mi ripeteva che eravamo diverse, che ci dovevamo rimboccare le maniche dieci volte di più perché in Italia ci avrebbero guardate con occhi diversi.

A proposito del rapporto della protagonista di Negretta con la madre e il padre, rapporto complesso e ricco di sfumature. Il primo appare un rapporto segnato dal conflitto, il secondo invece da una maggiore ricerca di affetto e approvazione…
La madre esercita una forte pressione sulla protagonista. Lei è più italiana che rwandese, si sveste delle sue tuniche per vestirsi con gli abiti italiani, si liscia i capelli con prodotti chimici che danneggiano enormemente la cute, si sbianca la pelle per conformarsi alle persone che la circondano e vuole fare la stessa cosa sulla figlia. Una mamma che poi è molto simile alla figlia, perché anche lei subisce il razzismo del paese in cui vive, ma anche nel suo paese natio: gli esperimenti scientifici dei belgi – che hanno fomentato l’odio tra le tribù e portato allo sterminio della sua famiglia –, la discriminazione sul posto di lavoro. Lei dice che la vera fine del mondo è dover lasciare il tuo paese solo per finire discriminata in un altro. È una figura che fa un’enorme pressione, che nutre il senso di inadeguatezza nella figlia. Il papà, a differenza della mamma, è più africano che italiano. Vive delle sue memorie africane, sogna l’Africa di notte per poi svegliarsi nel cemento della fabbrica in cui lavora. È una figura complessa anche questa, è un ex missionario che ha rinunciato alla tonaca e per questo ha pagato un prezzo altissimo: è alienato dalla sua famiglia e anche dalla società, costretto a svolgere i lavori più umili e a vivere una situazione finanziaria precaria. Una figura amata e odiata, che un po’ rappresenta quella parte della protagonista che è l’Italia, che Marilena ama e un po’ odia perché si sente rifiutata – appena nata non accettano il suo nome rwandese, è una storia vera ed è successo anche a mia figlia. Un’Italia che la etichetta come “negretta”, dalle infermiere agli impiegati del comune, ai compagni, alle forze dell’ordine, i muri che costantemente le ricordano che è indesiderata. Sicuramente è un’identità che continuamente cresce e soffre tantissimo. La cosa positiva che in questo libro emerge molto è che la protagonista non si sente né bianca, né nera ma semplicemente se stessa quando è insieme alla sua migliore amica, che scopre vittima di cori razzisti. Le chiamano Caffè e Latte e questo diventa il loro orgoglioso nome di battaglia.

Puoi dirci qualcosa di più del sottotitolo che hai scelto, “Baci razzisti”?
Nel libro ci sono tanti tipi di baci. C’è il bacio mai successo tra i genitori di Marilena; il bacio tra il padre e la matrigna in Malawi fuori dalla chiesa; quello soffiato da Marilena alla santa Lucia; il primo bacio tra le due amiche sulla bocca; quello dei soldati americani; il bacio di giuda dell’amica che si fidanzerà con il leghista; i baci perugina; il bacio sul carro di carnevale tra la principessa indiana e Bossi; il bacio della buonanotte del papà che Marilena non ha mai ricevuto. Ma volevo riferirmi soprattutto ai quei baci che diventano espliciti abusi fisici e anche psicologici da parte di familiari, compagni, forze dell’ordine. Baci di chi riduce Marilena a nient’altro che una prostituta per il colore della pelle. Ed è purtroppo qualcosa di molto attuale. Non puoi non esserne influenzata, sono cicatrici, tante, che diventano parte di te e che poi portano ad una persona adulta insicura, con questo forte senso di inferiorità. Io continuavo a tenere tutto dentro, non avevo nessuno con cui parlare o confrontarmi.

È interessante anche il titolo del tuo memoir Razzismo all’italiana. Secondo la tua esperienza il razzismo, in Italia, ha dei tratti peculiari, riconoscibili?
In realtà non era questo il titolo originale, ho dovuto cambiarlo. Ho pensato a Razzismo all’italiana perché, innanzitutto, io sono nata in Italia, cresciuta in Italia, insultata in Italia. Quindi parlo proprio del razzismo in Italia e nello specifico di quello che io ho vissuto a Bergamo, la roccaforte leghista per eccellenza, tra l’altro negli anni del boom della Lega. L’ho fatto poi anche per mettere gli italiani di fronte a un problema reale. Parliamo di un paese in cui sono nate le leggi razziali. Secondo l’osservatorio delle interforze contro gli atti discriminatori, dati alla mano, 3 episodi di violenza su 4 in Italia hanno matrice razzista. Nello specifico, 969 nel 2019 erano i reati che avevano a che fare con razzismo, identità di genere e disabilità. Nel 2016 erano 736, vanno crescendo. Questo vuol dire che ogni 9 ore ci sono 2,6 reati di questo genere. Poi per i reati che hanno a che fare con l’etnia, la razza, la religione, nel 2019 ne erano stati segnalati 726, molto più delle 494 del 2016. Per dire che in Italia c’è razzismo, e secondo me l’Italia non si reputa un paese molto razzista. Il razzismo c’è, c’è eccome. Poi ci sono anche gli omicidi. Penso a Giacomo Valent ucciso dai suoi compagni liceali con sessantatré coltellate, o a Essan Masslo, la cui morte nell’89 aveva portato alla prima rivolta dei migranti contro il caporalato, che poi andrà a inaugurare il Movimento Antirazzista Italiano. Poi a Idy Diene, e molti altri. C’è un sito chiamato “Cronache di ordinario razzismo” che giorno dopo giorno documenta tutti questi episodi. E dunque proprio per questo “razzismo all’italiana”, per risvegliare il paese. C’è il razzismo istituzionale, che è evidente a tutti quanti, e poi il razzismo sistemico, ogni volta che viene negato un servizio pubblico che invece dovrebbe essere garantito, tutte quelle forme di trattamento diverso. Nel 2015, mi pare, era uscito un articolo su “The Guardian” che indicava l’Italia come il Paese più razzista d’Europa.

Alla luce di quanto sta accadendo nel mondo in questo momento storico: cosa possono e devono fare l’arte e la letteratura?
C’è chiaramente una nuova attenzione da parte dei mass media mondiali dall’uccisione di George Floyd. È triste che un fatto del genere debba finalmente aiutare le persone a risvegliarsi sul problema del razzismo che è presente da tantissimo tempo. Secondo me quel che sicuramente si deve fare è parlare di più di questi problemi, di questa situazione, e dare voce soprattutto agli artisti, a tutte le persone che con tutte le forme d’arte possibili possano esprimere il proprio punto di vista e dare voce a chi non è rappresentato. Noi cerchiamo di farlo dal punto di vista musicale, dando voce a un’intera categoria di persone non rappresentate. Bisogna fornire modelli positivi, riempire il vuoto che c’è nel patrimonio culturale e artistico italiano, dando voce e visibilità a queste persone. Soprattutto perché vengano ascoltati dal nostro governo, perché bisogna partire dal razzismo istituzionale, quella è la base di tutto. Inoltre, le seconde, le terze generazioni hanno un patrimonio bellissimo, unico, speciale perché racchiudono la cultura e l’educazione italiana e un arricchimento che sono le loro radici. C’è molto da imparare, da conoscere, anche su come la cultura italiana si sposi con culture di altri Paesi. Io guardo al futuro in maniera positiva. È inevitabile, il futuro sarà molto più multiculturale, bisogna guardare al cambiamento, andare avanti e abbracciare queste culture, non respingerle. Non stare fermi a guardare, ma partecipare, cercare di cambiare le cose.

I LIBRI DI MARILENA DELLI UMUHOZA