
Mario Sconcerti - presenza di punta di tutti gli approfondimenti calcistici di Sky e prima firma sportiva del Corriere della Sera - da sempre affianca alla sua attività di cronista sempre magnificamente sul pezzo, quella di storico del calcio, capace come pochi, grazie ad approfondimenti sempre estremamente precisi e documentati, di raccontare il mondo pallonaro in chiave analitica e persino antropologica. Capacità queste che non solo lo rendono una delle voci più autorevoli del giornalismo italiano ma soprattutto una delle pochissime realmente credibili. Da alcune di queste riflessioni è nato il suo ultimo libro. Ho avuto il piacere e l’onore di scambiare con lui questa breve chiacchierata.
Nonostante il titolo Il calcio dei ricchi attiri l'attenzione solo sul potere di alcuni club, tu nel libro abbracci una moltitudine di temi. Qual è stata l'esigenza che ti ha spinto a scrivere un saggio di questo tipo?
Mentre in televisione o sul Corriere tratto molto dell'attualità, avevo piacere di raccontare cose più a lato dei grandi temi, magari anche non fondamentali se vogliamo, ma, almeno dal mio punto di vista, assolutamente importanti da approfondire. Come per esempio il tema della raggiunta competenza dello spettatore, un tema difficile da poter sviscerare nel la cronaca del quotidiano. Avere dunque questi temi diciamo di riserva - anche in futuro - da far sfogare poi in un libro, è sempre un occasione di dibattito e di approfondimento molto importante, che certamente completa il lavoro sul calcio.
Se la classifica è data sempre di più dal portafoglio delle società, non si rischia alla fine di veder vincere sempre gli stessi?
Sì, certamente. Ma in fondo è quello che è sempre successo. Basta guardare la grande differenza che c'è tra le vittorie della Juventus, del Milan o dell'Inter e tutte le altre. Noi ce ne accorgiamo adesso perché è diventato più evidente e inevitabile, con i diritti televisivi e i vari merchandising. Ma che nel calcio abbiano sempre vinto i ricchi è un fatto evidente. Fin da quando cominciò Edoardo Agnelli. Non a caso Agnelli nel 1923 quando prende la Juventus, pone fine - per pura semplice conseguenza del suo arrivo - a tutto il grande calcio delle polisportive piemontesi, squadre cioè per lo più amatoriali che vincevano allenandosi in piazza. Agnelli porta la cultura della multinazionale nel calcio e crea così una squadra, la Juventus, 'condannata' a vincere. Non a caso dal '35 al '49 la Juve non vince nessuno scudetto, proprio perché in quegli anni - cosa pubblica ma che pochi sanno - non è più degli Agnelli. Nel 1935 Edoardo infatti muore dopo un terribile incidente mentre è a bordo del suo idrovolante e la Juve viene presa da Enrico Craveri prima, da Emilio de la Forest de Divonne poi e infine da Piero Dusio, che era un altro costruttore di macchine importante, trascorrendo una decina d'anni abbondanti - prima di ritornare nel '47 alla famiglia Agnelli grazie a suo figlio Gianni - in cui non vince assolutamente nulla. Anzi la Fiat in quel periodo sponsorizza addirittura il grande Torino.
Quindi il miracolo calcistico di un Verona o di una Sampdoria scudettati sono pure utopie oggi?
Assolutamente sì. Un Verona certamente. Per la Sampdoria il discorso è diverso. Non dimentichiamoci che è gestita da un presidente che è uno dei più ricchi d'Italia, dunque se volesse potrebbe tranquillamente competere, ma certo questo non diminuirebbe la teoria iniziale.
La soluzione potrà essere dunque il fair play finanziario voluto da Michel Platini?
Non credo. Non credo proprio perché è un fair play, non una regola. Tanto è vero che si toccano con mano le difficoltà di Platini nel gestirla, proprio perché ancora non ci sono sanzioni precise. Cioè ancora non si sa bene che cosa rischia il club che non rispetta questo fair play. Senza contare, come viene spiegato nel libro, che ci sono già dei modi per aggirarlo, avendo le stesse società individuato la possibilità di ridiscutere tra loro l'eventuale debito che si è accumulato, finendo tutto sommato e in linea di principio come con il discorso delle plusvalenze. E' certamente un terreno scivoloso ma come principio Platini ha certamente ragione. Altrimenti davvero in futuro finiranno per vincere sempre le stesse in Europa, finendo con la dequalificazione della bellezza del prodotto.
Vista la sempre più marcata competenza dello spettatore, quale sarà il ruolo del giornalista sportivo del futuro?
Temo che il giornalista futuro sarà sempre meno libero. Il cronista dovrà essere una specie di sacerdote della squadra che segue. Non si ammetterà mai - come già abbastanza succede oggi - che un cronista pubblichi le cose scomode di una società. Verrebbe visto come nemico, come avversario. E per quanto riguarda l'opinionista, questo avrà ancora meno libertà del cronista, se vogliamo. Perché se il calcio è una fede, tu devi far parte di quella stessa fede, finendo con l'essere intelligente solo quando la pensi come loro.
Che cos'è il calcio per Mario Sconcerti e soprattutto cos'è che riesce oggi a farti ancora emozionare?
Intanto le belle partite sempre. La partita della domenica della Fiorentina - un'ora prima e l'ora dopo, oltre che naturalmente la partita stessa - ancora mi emoziona. Il calcio invece è stato per me una straordinaria compagnia. E ancora oggi lo è. Diciamo che è l'unica cosa che ancora non mi è mai venuta a noia.
I libri di Mario Sconcerti