
Sono in nave, partecipe di una crociera letteraria nel Mediterraneo, e ascolto una serie di presentazioni di libri, dibattiti, tavole rotonde… sul mare! All’improvviso, viene presentato Massimo Roscia, autore di uno stravagante romanzo sulla lingua italiana e sulla sua decadenza dovuta a parlanti improvvisati e superficiali, fanatici dell’anglo-aziendalismo rampante fatto di “briefing”, “light lunch”, “soft power”, mentre annegano nei “qual’è”, nei “daccordo” nei “se vorrei” e nei “pultroppo”. Mi accaparro subito una copia del libro e mi ritiro in cabina per leggerne alcune pagine. Inutile dirlo, resto in cabina fino all’ultima pagina del volume e ne esco solo per precipitarmi a intervistare l’originale autore: Roscia, romano di quarantacinque anni, critico enogastronomico e giornalista di turismo culturale, locutore originalissimo, affabulatore impertinente e instancabile, affascinante critico della contemporaneità linguistica e letteraria, con una propria discutibile ma nitida visione delle cose e del mondo e soprattutto con un bagaglio di scritture alle spalle già sufficiente a delinearne un profilo preciso di autore letterario.
Omicidi, torture, complotti a scopo di “legittima difesa” e tutela dell’integrità del nostro patrimonio linguistico identitario. Questi gli ingredienti de La strage dei congiuntivi, un giallo scritto in violazione di ogni prevedibile struttura narrativa di genere…
Proprio così.
La «questione della lingua» italiana, da Dante a Pasolini e Calvino, passando per le teoriche di Manzoni e Ascoli, da sempre è stata vincolata agli estremi alternativi della tradizione o dell’innovazione: l’aulico passato letterario o la volgar lingua contemporanea, ricca di prestiti, calchi e dinamismi osmotici da interscambio. Con il tono leggero e scanzonato dell’ironia, il romanzo sembrerebbe prendere le difese della tradizione: è così?
«La sconsiderata favella altera, cannibalizza, corrompe, avvelena, infanga, sfigura, strazia, tormenta, amputa, umilia, inquina, imbarbarisce, appesta, deturpa, abbatte, tortura, devasta, oscura, saccheggia, lacera, annichilisce». La vittima, la vera vittima, è la lingua italiana; i personaggi (bislacchi) del mio romanzo, seppur con metodi violenti e in maniera plateale, si limitano a reagire per difenderne l’integrità ed esaltarne la bellezza. Detta così, sembrerebbe che l’Autore – da un po’ di tempo mi capita di parlare in terza persona e incoronarmi con una maiuscola – abbia voluto schierarsi apertamente dalla parte dell’aulico passato letterario. È, palesemente, una guerra dichiarata ai sò, stò, pò, ai qual’è, ai pultroppo, propio e senpre, agli avvolte (a volte), ai daccordo e d’avvero, alle reiterate mutilazioni della lettera h nel verbo “avere”, ai piuttosto che usati impropriamente con valore disgiuntivo. È, palesemente, una guerra dichiarata alle reggenze errate, ai verbi intransitivi goffamente resi transitivi, ai singolari invertiti con i plurali, le maiuscole con le minuscole e i maschili con i femminili. È, palesemente, una guerra dichiarata alle k che si sostituiscono ai digrammi ch, agli impianti desinenziali presi a bastonate, ai segni di interpunzione trascurati o maltrattati, alle inutili sovrapproduzioni di avverbi, ai fastidiosi diminutivi iperbolici (un attimino). È, palesemente, una guerra dichiarata ai congiuntivi dimenticati, ai congiuntivi sbagliati, ai congiuntivi troppo disinvoltamente e sbrigativamente riposti in cantina per far posto ai più pratici indicativi. È, palesemente, una guerra dichiarata al pandemico scadimento lessicale e – volendo ampliare la metafora – al degrado culturale, alla crisi dei valori e alla perdita dell’identità. Ma, a una più attenta lettura, si coglie – o dovrebbe cogliersi – anche la consapevolezza da parte mia (nel frattempo mi sono riappropriato di una più consona prima persona singolare) che l’unica lingua che non cambia è quella morta. L’italiano è una lingua viva e, quindi, soggetta a evoluzione, mutamento, contaminazione, osmosi… E nel romanzo le situazioni spinte al parossismo, i tratti caricaturali e i toni saccenti – talvolta fastidiosamente saccenti – dei personaggi servono, salomonicamente, a riportare in equilibrio i termini della questione, schernendo anche i puristi, i talebani, i fanatici, i misoneisti, i nostalgici e tutti quelli che, proprio come il sottoscritto, ucciderebbero per un congiuntivo invertito con un condizionale.
La moda dei forestierismi, però, ha di recente superato ogni limite e suscitato la risentita reazione degli addetti ai lavori, della Crusca, dei professori universitari, degli insegnanti di lingua italiana nel mondo, dei funzionari dell’Area della Promozione Culturale del Ministero degli Affari Esteri che, in oltre 70.000 persone, suggeriscono: “Dillo in italiano”. Tu, il Jobs Act, in che lingua lo diresti?
«Sono appena rientrato da un bar. Ora sono a casa, davanti al computer. Mentre cerco su internet gli orari degli autobus, ascolto ottima musica rock». Una scena di vita normale, raccontata con un lessico che possiamo considerare normale. Altro, invece, è dire: «Definita la nostra mission, una volta profilato il pattern che presto vi forwarderò, sarà necessario individuare una location e schedulare, in team building e nel rispetto della guideline, un fine tuning degli influencers. Il tutto, visto che siamo a ridosso della deadline, asap (as soon as possible)». Considerato che anche questa scena, purtroppo, rischia di diventare normale, concordo sulla necessità di porre un freno alla deriva. Nessuna caccia alle streghe (o, forse, dovrei dire witch hunt), nessun rigurgito sciovinista, nessuna aprioristica crociata contro anglicismi che, se usati con moderazione, arricchiscono il nostro idioma. Io “lo dico in italiano”e basta. Perché l’italiano è una lingua straordinariamente ricca e, nel migliore dei casi, sottoutilizzata; perché non mi stancherò mai di leggere la mia meravigliosa bibbia laica (il dizionario) e perché molti forestierismi che utilizziamo – per pigrizia, sudditanza, moda, esibizionismo, cosmopolitismo di facciata o semplice ignoranza – sono superflui e, in ogni caso, perfettamente ed efficacemente esprimibili in italiano. E, dunque, per senso di identità e senso della misura, dico “piano per il lavoro” (e non “Jobs Act”), così come dico “revisione della spesa” (e non “spending review), “pausa caffè” (e non “coffee break”), “pranzo leggero” (e non “light lunch”), “sostegno” (e non “endorsement”), “assistenza clienti” (e non “customer care”), “biglietto da visita” (e non “business card”). Certo non mi sentirete mai dire “le skills” (a intendere le competenze), salvo che non mi dovessi ritrovare, nella sala riunioni di un luminosissimo ufficio a South Kensington, con affaccio su Pelham Street, impegnato in un colloquio di lavoro, per una posizione professionale prestigiosa e ottimamente remunerata, con un headhunter londinese.
Torniamo alla letteratura e al tuo romanzo. Quello giallo è un “genere” narrativo al quale, da ultimo, si è tornati in più parti del mondo: Svezia, USA, Argentina, Spagna, Portogallo. In Italia, da un po’ di tempo si pubblicano quasi esclusivamente gialli, noir, thriller: la tua è stata una scelta, come dire, “commerciale” o “vocazionale”?
«Veggendosi da noi – risponderei se fossi l’abate Rosmini – con un occhio diversamente colorita quella stessa immagine che coll’altro vedesi chiara, nasce una cotal confusione nel soggetto senziente, che rende difettosa quell’unica sensazione». Riponendo nello scaffale il volume di filosofia morale e inforcando un paio di occhiali, riesco però a fare chiarezza e a distinguere nitidamente il colore giallo. Giallo, perché nel romanzo vengono descritti crimini, vittime, carnefici e altri personaggi direttamente e indirettamente coinvolti nella vicenda, la narrazione delle indagini – per quanto intermittente e secondaria – accompagna durante la lettura e il finale è (solo apparentemente) risolutore. Ma, prestando la dovuta attenzione, colgo anche il rosso, il colore del sangue, dell’omicidio e delle altre violenze riportate senza censura. E poi c’è il nero – come non accorgersene – tipico delle narrazioni in cui il crimine e la sua soluzione sono meri pretesti, in cui l’obiettivo cattura le immagini della società, il mistero assume una funzione subordinata, i confini tra il bene e il male si confondono fino a dissolversi, il finale spiazza e i lettori si immedesimano nei protagonisti diventando essi stessi paladini della lingua italiana. E c’è anche il grigio – pochissime sfumature, per carità – che è il colore della nebbia, delle ombre, della cenere, della monotonia, della saggezza, della neutralità e del tempo che passa. E c’è il verde, il verde delle foglie piccole, tondeggianti, fitte e luminose delle siepi di Buxus sempervirens (bosso sempreverde) che compongono il labirinto. Finzione, inganno, mistificazione della storia… Metafore, paradossi, intrecci, mondi paralleli… Trama contorta, gioco, burla, provocazione, sfida… Tornando alla domanda, la mia scelta non è stata né commerciale né vocazionale; è stata, più semplicemente, una scelta cromatica.
Il ‘sistema dei personaggi’, nel tuo romanzo, è atipico e del tutto originale, così come lo sono il linguaggio e lo stile: c’è, in ogni caso, un modello (o più) di riferimento?
Un modello di riferimento potrebbe essere individuato a metà strada tra la “Notazione aurea” di Martin Kendall e la “Concatenazione narrativa multisensoriale” di Julie Hat. Semplificando: PN (dove P e N stanno a indicare la distribuzione emozionale positiva e quella negativa); MA (M come memoria e A come assenza di memoria); 5S (sono – è fin troppo facile – i cinque organi di senso); T (la distribuzione deterministica del tempo); IO (l’Io narrante); NM/ND (narrazione mimetica e narrazione diegetica); EFA (esperienza, osservazione e fantasia, che poi sono i classici ingredienti che compongono un qualunque romanzo); FU (fattore umano); IP (imprevisti e probabilità); ISBN (la sequenza numerica di tredici cifre usata, a livello internazionale, per la classificazione dei libri; dall’inglese International Standard Book Number, ovvero “numero di riferimento internazionale del libro”); SSN (Servizio Sanitario Nazionale).
Capisco e recepisco. Tuttavia, se dovessi in poche parole e in pochi esempi collocare la tua scrittura in una cornice di riferimento intertestuale a quali scrittori/opere faresti più volentieri riferimento?
Più che collocare la mia scrittura, collocherei la mia lettura, la lettura di un avido, onnivoro, curioso e bulimico lettore. «Che altri si vantino delle pagine che hanno scritto; io sono orgoglioso di quelle che ho letto». Jorge Luis Borges, come non partire da lui e dalla sua straordinaria arte che «vuol sempre irrealtà visibili» ma che, a volte, si trasformano magicamente in città invisibili – come «la mezza Sofronia dei tirassegni e delle giostre» raccontata da Italo Calvino – e mi fanno contare quanti mesi e quanti giorni dovrò aspettare prima che la carovana ritorni e ricominci la vita. La vita – e le sue istruzioni per l’uso – che Georges Perec mi ha sbattuto in faccia mettendomi di fronte «all’inestricabile incoerenza del mondo», al punto che il suo romanzo che, già nel sottotitolo, diventa romanzi (al plurale), è per me esaltazione del tutto e vertigine del nulla; nulla che, nelle pagine di Sartre, si contrappone ontologicamente all’essere e io, dunque, esisto. Leggo, vivo. E, leggendo, vivo tante vite in una, contorcendomi come i personaggi di Craig Clavenger, alternando la spietata crudeltà dell’Untore di Diogo Mainardi alla raffinata ebbrezza di Abe Ravelstein di Saul Bellow. Leggo, leggo libri che volano via, come quelli di Juan José Millás e del suo ordine alfabetico. Leggo Gadda e Buzzati, Pasolini ed Eco, Edgar Allan Poe e Franz Kafka, David Lodge e Will Self, Jonathan Carroll e Jeffrey Eugenides. Leggo tutti, leggo tutto. Leggo L’opera struggente di un formidabile genio di Dave Eggers che, a bordo di una vecchia Oldsmobile Starfire, motore V6 e trazione posteriore, in compagnia di David Foster Wallace, Don De Lillo e Thomas Pynchon, si lascia alle spalle il traffico del realismo isterico, del postmodernismo ricercato e delle altre etichette di genere (con suffisso -ismo), fugge dall’esperienza sensibile, si immette in una strada deserta (finalmente senza nome) e punta deciso verso il silenzio, verso il nulla. Il ritmo rallenta, il contatto con la realtà vacilla fino a perdersi del tutto, il linguaggio si deteriora. È il grado zero della scrittura, ma io continuo a leggere. Leggo Samuel Beckett e mi trasformo nell’Innominabile. Sono immobile, seduto nella penombra con le mani poggiate sulle ginocchia, quasi sospeso nel vuoto assoluto. «Bisogna continuare, forse è già avvenuto, forse mi hanno già detto, forse m’hanno portato fino alla soglia della mia storia, davanti alla porta che si apre sulla mia storia, ciò mi stupirebbe, se si apre, sarò io, sarà il silenzio, là dove sono, non so, non lo saprò mai, dentro il silenzio non si sa, bisogna continuare, e io continuerò”.