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Intervista a Maurizio de Giovanni

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Un funzionario di banca quasi cinquantenne che iscritto ad un concorso letterario sforna un personaggio memorabile e sfoggia una scrittura che non ti aspetti. Nasce così lo scrittore de Giovanni. Non è facile farlo parlare di sé, ma basta chiedergli qualcosa sui suoi personaggi e parte come un fiume in piena. Una persona di una sensibilità rara, con un garbo e un’educazione d’altri tempi. Viene da definirlo una persona per bene. E a mio parere, oggi come oggi, è un gran complimento.




Il giorno dei morti, quarto volume della tetralogia di Ricciardi, è il romanzo che ha segnato la tua consacrazione a scrittore, un successo dovuto moltissimo al passaparola: secondo te, cosa ha colpito in maniera così prepotente i lettori, che sono andati a cercarsi i romanzi precedenti e hanno poi decretato il successo del tuo Per mano mia?
Il passaparola non è un mito, creato per sostenere operazioni commerciali degli editori: esiste davvero, anche se da solo più di tanto non può fare. Io devo ai miei lettori l’essere arrivato all’attenzione di uno degli editori maggiori del Paese, e per questo sarò loro sempre grato. Credo che la cifra di Ricciardi sia la compassione, un’osservazione partecipata del dolore costante in cui certe categorie sociali sono costrette a vivere. Evidentemente la compenetrazione con questa sofferenza è un bisogno che i lettori sentono.

Nella Napoli di Ricciardi, i ricchi aspettano la prima di Natale in casa Cupiello, nelle baracche più povere si prepara comunque il presepe. Un omicidio viene perpetrato con modalità che richiamano nel lettore più attento un romanzo di Agatha Christie, e così nei tuoi romanzi la città diventa protagonista quanto lo diventava con De Filippo. Quanto hanno influito ‒ ammesso che l’abbiano fatto ‒ autori che hanno basato tutta la loro produzione sull’assunto che la natura dell’uomo è sempre uguale, alla base di ogni comportamento, sia nel positivo che nel perpetrare delle “male azioni”?
Per ogni autore napoletano Eduardo De Filippo ha un’immensa importanza. Il suo modo di entrare nella mente e nelle anime, il linguaggio, l’analisi delle vite e soprattutto delle emozioni e delle interazioni sono un punto necessario di partenza per la nostra scrittura. Una città come questa, con un’enorme popolazione compressa in uno spazio ristretto, implica una vera e propria foresta di emozioni, con intrecci di anime e di volontà, di passioni immense e conflittuali, che regala un territorio narrativo pressoché infinito.

Uno dei personaggi a cui i lettori sono più affezionati è Bambinella, un femminiello col cuore grande, che ascolta dove la polizia non può ascoltare. Una incursione nel sociale, o un modo per ricordarci che in fin dei conti alcune cose sono sempre accadute e forse bisogna cambiare il nostro punto di vista, o semplicemente un personaggio funzionale ai romanzi?
Bambinella per me è un veicolo, un modo di percorrere un territorio sociale altrimenti chiuso e difficilissimo da raggiungere. Lo vedo come un interprete, un personaggio in grado di tradurre e rendere comprensibile un linguaggio difficile che risponde a processi differenti. È sicuramente funzionale alle storie, ma è anche un bellissimo modo per me di incontrare strade e paesaggi che altrimenti resterebbero fuori dalla narrazione.

La grande passione di Maurizio de Giovanni è il Napoli, inteso come squadra di calcio. Ci parli della tua produzione anche teatrale legata a questa passione?
Scherzando, ma neanche tanto, dico spesso che la mia vera scrittura è quella dei racconti sul calcio. Scrivere di calcio mi piace tanto, do sfogo all’ironia e posso tentare un epos altrimenti irreale in altri ambiti narrativi. Per questo motivo sono state tratte alcune versioni teatrali dai miei racconti, una delle quali avrà la prima rappresentazione tra qualche giorno. Penso che a Napoli io sia più noto per questi scritti che per Ricciardi, che pure ha un lusinghiero seguito. Io mi diverto, questo è certo. E finché mi divertirò, continuerò a scrivere.

Ripartiamo da qui, con Maurizio de Giovanni che non soddisfatto del successo ottenuto dal suo commissario Anni Trenta Ricciardi si cimenta con una serie di gialli contemporanei, I bastardi di Pizzofalcone. I romanzi riscuotono un successo editoriale tale da spingere la RAI a trarne una fiction – con Alessandro Gassmann a interpretare l’ispettore ‒ che ha registrato ascolti davvero notevoli. Hai più volte ricordato che la squadra di Pizzofalcone ha voluto essere un omaggio a Ed Mc Bain, in realtà Lojacono nasce da solo ne Il metodo del coccodrillo, come si passa da lui ai Bastardi?
Quando ho scritto Il metodo del coccodrillo non avevo idea che avrebbe dato la stura alla serie de I bastardi di Pizzofalcone. In realtà, il romanzo è un tributo al bellissimo film e più ancora al meraviglioso libro di Vincenzo Cerami Un borghese piccolo piccolo, che all’epoca mi avevano colpito profondamente, facendomi ritenere la storia quanto di più horror avessi fino ad allora incontrato. Ma dopo averlo messo in campo, ho avuto voglia di conoscere che cosa sarebbe accaduto a Lojacono e come avrebbe inciso sulla sua vita l’aver risolto il caso, anche senza essere riuscito a impedire l’ultimo, gravissimo delitto. Per farlo mi è parso giusto inserirlo in un contesto di altre esistenze, interrotte e in cerca di riscatto, prendendo spunto dal maestro inarrivabile Mc Bain che del pari nel suo 87mo Distretto aveva reso protagonista non già un individuo, bensì una squadra.

Uno dei “protagonisti” della saga Ricciardiana è il Cane, che ha perso il suo padrone ne Il giorno dei morti e viene adottato dal dottor Modo. Fonti certe dicono che più volte hai tentato di farlo uscire di scena e sei stato minacciato di ritorsioni indicibili, nella fiction de I bastardi di Pizzofalcone è apparso un cane accanto al commissario Palma (mentre è scomparso quello di Ottavia): una scelta funzionale al prosieguo delle vicende o semplicemente una presenza costante nella vita dell’autore?
È stata mia moglie a impedirmi di far morire il cane di Modo, limitando così la mia creatività! Oltre che per motivi scaramantici (abbiamo un cane anziano), Paola ritiene che dal punto di vista emotivo la presenza di un cane sia fondamentale. Il cane di Ottavia è un omaggio a Paola Novarese di Einaudi, che ne ha uno uguale, mentre quello di Palma, non presente nei libri, è una scelta del regista. Anche in questo caso, secondo me, azzeccata perché riesce a dare calore. Soprattutto nella vecchiaia e nell’inesorabile ottundimento dei sensi, i cani sono irresistibili.

Hai postato sul tuo profilo Facebook una specie di risposta collettiva a chi ti chiede se la tua rappresentazione di Napoli sia “anti-qualcosa”, dichiarando che in realtà è solo la città che chiunque può vedere arrivandoci e hai escluso qualunque dietrologia. È ben vero però che un certo tessuto sociale, una commistione così stretta fra ceti sociali opposti con qualcosa che va oltre la reciproca utilità è possibile solo a Napoli, un luogo in cui convivono le sfogliatelle del Gambrinus – più che un bar ormai una meta turistica – e le tristemente famose Stese. Questa riflessione mi fa spostare il focus sulla seconda puntata della fiction, un inedito scritto appositamente; al momento della confessione l’omicida pronuncia una frase assolutamente divertente e altrettanto raggelante, non un’ammissione di colpa ma il volersi prendere merito per aver liberato la società da un delinquente. Una boutade divertente fine a se stessa o lo specchio di un trend diffuso per cui non ci si fida della Giustizia?
Ripeterò all’infinito che non sono un sociologo di massa, né un opinionista: sono solo uno scrittore che ambienta le sue storie a Napoli. E la varietà delle classi sociali che solo a Napoli coesistono così vicine tra loro, ruote dentate in un meccanismo asincrono, riesce a fornirmi uno scenario impagabile dal vista umano, oltre che paesaggistico.

Dei cinque romanzi della serie per la fiction ne sono stati usati solo tre, gli altri sono inediti, una scelta dovuta a?
Mera cronologia: ho firmato il contratto quando esistevano solo tre libri, oltre a Il metodo, che però è stato ritenuto troppo doloroso per la prima serata di RAI Uno.

Tu hai un rapporto con i tuoi lettori che credo nessun autore del tuo calibro riesce a mantenere, rispondi a tutti, hai una parola gentile per chiunque ti approcci, alle presentazioni ci sono code che ricordano più l’uscita di un nuovo smarphone che di un libro: pensi che questo tipo di affetto ci sarà ancora quando inevitabilmente le tue serie (penso soprattutto a Ricciardi) arriveranno ad una naturale conclusione?
Lo scopriremo solo vivendo. Mi auguro di riuscire a rimanere nel cuore delle persone. In fondo i libri vengono prima della televisione e spero che le mie storie, e con esse l’affetto delle persone, sopravviveranno alla fine della fiction.

Quanto ti manca una vita “normale”, poter programmare una pizza con gli amici senza dover correre a prendere un aereo o un treno, fermarti a bere un caffè senza l’ansia di essere fermato dai lettori che hanno qualcosa da recriminare o da suggerire?
Sono sicuramente stanco, ma anche felice. Sono stato fortunatissimo ad avere tutto questo e non vorrei mai che passasse il messaggio di un mio desiderio di un ritorno alla vita normale. Vivo normalmente anche se più intensamente di prima e il fatto di essere fermato spesso dai lettori riesce a darmi gioia e divertimento, mai ansia.

Un piccolo giochino per chiudere. Hai la possibilità di passare una serata con un qualunque personaggio/persona vivente o meno: con chi vai a cena?
È successo già di recente: sono andato a cena con il Numero 10, alto, biondo, con gli occhi azzurri e un mantello a coprirgli le ali. Il nome lo ometto per devozione.

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