
La scrittura è l’equilibrio che la rende persona. E quanto la ami lo si avverte in ogni risposta. Monica Acito esordisce nel mondo della narrativa e lo fa con una storia di sopportazione, della quale ci racconta con generosità la genesi, i personaggi e l’ambientazione. Si presta volentieri a una lunga intervista, durante la quale si parla di caos e amore, di dolori e ferite, di letture e scrittori preferiti e anche di Napoli.
Cominciamo dall’inizio. Come nasce la tua passione per la scrittura e quali passi hai compiuti per arrivare alla pubblicazione del tuo romanzo d’esordio Uvaspina? La passione per la scrittura non è proprio una passione, ma un vero e proprio tic che mi porto dietro da quando sono bambina. Ho conosciuto prima la scrittura e poi le mestruazioni, sono diventata prima scrittrice e poi donna. Non mi ricordo quando ho cominciato a farlo, non saprei isolare un momento preciso, so solo che ho cominciato a scrivere verso la terza o quarta elementare. Da quel momento fino alla pubblicazione di Uvaspina mi sembrano passate otto vite, perché la scrittura è sempre stata qualcosa di troppo totalizzante, presente e ingombrante per poter individuare momenti fissi. Durante gli anni ho cominciato a collaborare con riviste online e cartacee, a scrivere ovunque, scrivermi addosso, vincere concorsi di narrativa, arrivare in finale ad altri concorsi, pubblicare racconti sulle riviste letterarie. In ogni caso, per farla molto breve, nel 2021 ho vinto il Calvino Racconti e poi il Premio Phoebe della Scuola Holden. Poi ho conosciuto la mia agente Carmen Prestia e dopo qualche mese ho terminato la prima stesura di Uvaspina: con Carmen abbiamo fatto un’asta per decidere quale fosse la collocazione ideale per il testo e Bompiani ci è sembrata la scelta migliore.
Da dove arriva la miccia che accende la tua storia? E qual è il tema da cui sei partita per dar vita all’intreccio del romanzo?
Mi interessava raccontare una storia di sopportazione. Sopportazione lunga, penosa, insostenibile. Credo che la sopportazione sia stata una delle parole più presenti della mia vita, ho una grandissima pazienza, ma poi arrivi al punto che non ce la fai più: o smetti di sopportare o schiatti definitivamente. Il frutto dell’uvaspina è conosciuto per le sue proprietà lenitive: è un frutto inadatto al clima della Campania, non ci sta bene in certi posti, e viene spremuto per ricavare sciroppi, decotti e liquori che guariranno i dolori degli altri. E questo è proprio il caso del protagonista del suo romanzo, la trama che porta cucita nel nome.
Uvaspina e i suoi familiari sono portatori di conflitti e vivono un’esistenza fatta di caos e amore. Ritieni che ciò sia possibile solo sulla carta e per personaggi inventati, o anche la vita reale è una matassa di amore e caos che può essere districata?
La situazione della famiglia Riccio scaturisce da una constatazione, direi. Tutte le famiglie che ho toccato con mano, osservato, annusato, si reggono su una tirannide. C’è sempre uno (o più di uno, ma di solito uno o una) che sono i tiranni della famiglia, il perno attorno a cui si assesta l’equilibrio familiare. C’è sempre quella persona che quando entra in stanza fa il bello e il cattivo tempo, quella che quando ha la luna storta non ce n’è per nessuno, la persona che ti costringe a snaturarti e sopportare. Non so come si possa districare questa cosa nella realtà, non so come si possa sciogliere questo dispotismo che è presente nei lessici familiare di quasi tutti: io ho deciso di indagarlo con la scrittura.
Minuccia e Uvaspina: due personalità complesse e forti. Come sei arrivata a “costruire” due personaggi così sfaccettati? Cosa volevi emergesse di ciascuno di essi? Quale ti ha creato maggiori difficoltà in fase di scrittura e a quale dei due ti senti più vicina?
Uvaspina e Minuccia sono due personaggi complessi perché non sono stilizzati, sono tridimensionali e mutevoli come le loro vite. Non si fermano mai ai cliché di fratello bullizzato e quindi vittima o di sorella dispotica e quindi crudele e carnefice, non fanno che scambiarsi le maschere a vicenda: direi quasi che se le lanciano addosso, come in un gioco sulla spiaggia. Per costruirli non c’è stato un vero e proprio processo, è come se li avessi “visti” e mi fossi fidata di loro e delle direzioni dove volevano guizzare. Per Uvaspina ho seguito un incedere più piano, lirico, arioso, ho attinto da tutte le vergogne che ho provato nella mia vita, da tutte le vendette che ho messo in atto per annullarla, quella vergogna; da Minuccia invece mi sono fatta travolgere, ho seguito il passo storto e claudicante della trottola di legno, pieno di scatti e furie.
C’è possibilità di riscatto per i protagonisti del tuo romanzo? Potranno imparare a convivere con il loro dolore e le loro ferite?
Questo è un romanzo dove non c’è riscatto né salvezza. Non c’è nessuna redenzione, tutti i personaggi conoscono dei lampi di felicità che poi pagano a caro prezzo. Ogni odore di felicità ha sempre il suo puzzo dietro, il conto salato da pagare, lo schifo che si annida tra le pieghe. Questa tensione è molto presente nel libro, non c’è mai un attimo di felicità abbagliante, la bellezza è sempre trafugata.
Napoli è un’altra grande protagonista del romanzo. Da dove nasce, secondo te, il grande fascino che da sempre questa città racchiude? C’è un autore, contemporaneo o meno, che sa raccontare Napoli in tutte la sua complessità e nelle sue varie sfaccettature?
Napoli ha un fascino demoniaco e irresistibile perché, al di là della facile oleografia, è una città pagana, una capitale mediterranea, l’unico luogo dove la cultura sale dal basso e dipinge ogni cosa. Napoli è una città scostumata, senza filtri, dove tutto è possibile, è il luogo del corpo in tutta la sua mostruosità. Gli autori che hanno saputo raccontarla meglio, a mio avviso, sono Basile, Cortese, Moscato, Russo, Ortese, Serao, La Capria, Cappuccio, e se questo libro riesce un po’ a ricordarli e far venire a qualcuno la voglia di leggerli, io sono felicissima.
Sempre a proposito di letteratura in generale e di grandi autori, ce n’è qualcuno che ha più di altri influenzato la tua scrittura e nei confronti del quale ti senti debitrice?
Un autore che mi porto dietro epidermicamente è Gabriel Garcìa Màrquez. Potrei dirne tanti (quelli che ho citato nell’altra risposta sono sottintesi), ma mi prenderei ottantotto righe e diventerei prolissa. Màrquez mi ha insegnato respiro narrativo, piglio romanzesco, liricità e bestialità, ritmo, fraseggio, musicalità, mi ha proprio messo davanti agli occhi che cosa significa fare romanzo. Lui è stato il mio primo Maestro, il mio primo shock narrativo e non me ne libero, nemmeno volendo. E poi credo che il Sudamerica e il Sud Italia abbiano dei tratti di irriducibile consanguineità, c’è una parentela emotiva e ancestrale che ho sentito fin dall’adolescenza. Uno dei miei sogni è visitare la casa museo di Màrquez in Colombia, vorrei farlo per i miei trent’anni: spero di riuscirci. Finora sono riuscita solo a dedicargli un tatuaggio: Remedios.
Che lettrice sei? Quali sono i tuoi generi e autori preferiti e cosa o chi invece non ti piace?
Sono una lettrice curiosissima e onnivora. Posso leggere l’Arcadia di Sannazaro e poi leggere Wallace, non ho nessun problema. Leggo veramente di tutto. Sono legata, purtroppo o per fortuna, in modo inossidabile al Novecento italiano, quindi Elsa Morante, Dino Buzzati, Lalla Romano, Berto, Albinati, Landolfi, Arpino, Tondelli e tantissimi altri. Poi ho un debole per la letteratura sudamericana, e i miei preferiti sono ovviamente Màrquez, Julio Cortàzar, Mario Vargas Llosa, Juan Rulfo, Amparo Dàvila, Gabriela Mistral. Quello che proprio non mi piace, ma forse è un limito mio, è la fantascienza, oppure i romanzi che parlano di corpo senza sporcarsi le mani e dandone una versione rassicurante e patinata.
Che cos’è per te la scrittura?
Come anticipato nella prima risposta, la scrittura per me è un tic, qualcosa di insopprimibile. Non riesco a funzionare se non scrivo, se per qualche giorno non scrivo divento inservibile, fumo di più, sono insufficiente nei rapporti umani, ho qualcosa dentro che mi ticchetta e non mi fa stare tranquilla. La scrittura è qualcosa di distensivo, che mi ridisegna e mi riconcilia, è l’equilibrio che mi rende persona. Mi rende semplicemente serena, mi diverte e ne sento la mancanza quando non c’è.
Qual è l’aspetto relativo al processo di scrittura che ti intriga maggiormente e quale quello che ritieni più difficile?
Tutto è semplice o difficile a seconda di ciò per cui si è più portati: ci sono scrittori che sono degli assi nel definire le trame ma sono carenti nello stile, o scrittori di stile che però possono anche permettersi di non avere una trama. Per me ogni cosa è stimolante e la curo con devozione. Posso dirti quello che mi intriga di più, che è la parte di costruzione linguistica e la caratterizzazione dei personaggi.
Hai già un nuovo progetto? A cosa stai lavorando al momento?
Sì, ho in mente un progetto per un prossimo romanzo, e per ora mi sto documentando e sto risolvendo alcune cose, non vedo l’ora di intraprendere questo nuovo viaggio.