
Visti dal vivo certi scrittori fanno proprio uno strano effetto... la Huston ha un che di aristocratico, e nel suo sguardo azzurro una distanza difficile da colmare. Io da parte mia sono pronta, ho domande da vendere, curiosità da esaudire e lettori curiosi, non mi lascerò intimidire. Oddio, ma che fa! Mi sorride gioviale e mi stringe la mano...?
Come nascono i tuoi romanzi?
L’impronta dell’angelo in realtà è nato dall’ultimo quadro del libro, dall’ultima istantanea, l’ultima scena. Quando mi è balzata in mente ero in treno, e proprio quell’immagine così chiara mi ha poi guidata nella scrittura del libro. A ritroso. Anche per Un difetto impercettibile l’inizio è coinciso con la fine, ho avuto un’immagine di ‘bambini rubati’ poi ho saputo che anche i nazisti avevano commesso crimini di quel genere, come rapire i bambini polacchi o russi strappandoli alle loro famiglie per farli adottare da famiglie tedesche. Credevo di essere ben informata sulla cattiveria tedesca, ma mi sbagliavo. Detto questo non considero il mio libro l’ennesimo romanzo sull’Olocausto, ma un libro che parla anche dell’Olocausto. È importante anche il punto di vista dei carnefici, perché banalmente si pensa che ci sia solo cattiveria dietro i carnefici e invece la realtà è più complessa e articolata.
Quale aspetto di questa storia straziante ti colpisce, ti interessa di più?
Credo che sia interessante la questione dell’identità di questi bimbi sottratti dalle famiglie, rapiti da suore vestite di marrone che offrivano loro caramelle all’uscita della scuola. Si stima che 250 mila bambini siano stati rapiti in questo modo e che solo circa 45 mila siano stati poi restituiti alle rispettive famiglie. Per almeno tre anni però molti di loro hanno vissuto con famiglie tedesche, e possiamo solo immaginare l’esperienza che hanno vissuto. Molti sono stati spediti in America, molti di loro erano russi e mai più sono stati reintegrati nella loro terra, sono stati obbligati a parlare una lingua nuova. Più in generale subisco in modo forte il fascino dell’idea dell’identità: ho viaggiato molto e mi rendo conto di quanto l’identità sia un concetto arbitrario, pensiamo ad un bambino italiano trasferito in giovane età in Australia… è chiaro che lui si sentirà australiano.
Perché hai fissato i protagonisti del libro proprio nei loro sei anni?
Ho scelto l’età di sei anni perché mia madre a quell’età ha abbandonato me. A sei anni io sono stata portata in Germania, mio padre ha sposato una donna tedesca e io - che ero stata battezzata protestante - sono stata ri-battezzata anglicana. Un bizzarro compromesso, perché la mia matrigna era cattolica.
La stesura originale del romanzo in che lingua è avvenuta, visto che scrivi i tuoi libri a volte in inglese a volte in francese?
Un difetto impercettibile è stato scritto in inglese perché i protagonisti parlano in inglese e questo è per me l’unico criterio importante. Alle volte scrivo indifferentemente nelle due lingue, alcune parti in inglese altre in francese, e tradurmi nell’una o nell’altra lingua mi è utile per correggermi.
Perché per raccontare la storia hai scelto il punto di vista dei bambini? È stato difficile adottarlo?
Da tanto tempo volevo scrivere con la loro voce, mi sono chiesta come è possibile trovare un orgoglio tale da poter uccidere per poter difendere la propria identità, quando nasce, dove affonda le sue radici. La cosa interessante dell’età dei sei anni è che i bambini capiscono già tanto, e nel libro ho cercato di imitare non tanto il modo in cui parlano, ma quanto quello che capiscono. Una cosa che ho imparato è che molte delle nostre passioni politiche hanno origine a quell’età, un’età che non è ancora della ragione, ma delle emozioni. Si è trattato del mio libro più doloroso e difficile da scrivere, sono stata costretta a liberarmi di tutti gli espedienti narrativi adottati in passato, come l’uso dell’ironia, mi sono sentita piccola circondata da persone grandi.
Cosa rispondi a chi ti accusa di eccessiva cerebralità nella tua scrittura e nella struttura dei tuoi romanzi?
L’abitudine a dare una struttura complessa ai miei romanzi nasce proprio dalla mia passione per i romanzi altrui nei quali si vede, si percepisce un’orchestrazione dei dispositivi letterari, non deriva quindi dalla mia formazione o da una scelta a tavolino, ma dall’amore.
Il tema della musica ricorre spesso in ciò che scrivi. Perché?
Suono il clavicembalo, il pianoforte e il flauto traverso – anche se non ho mai avuto il desiderio di farlo in pubblico - e mio figlio è un bravo pianista. Desidero scrivere libri come se scrivessi una partitura musicale, dove ogni nota e ogni ritmo hanno un posto preciso. Inoltre la musica va interpretata più che ascoltata, e quindi infonde in me l’umiltà di cui ho bisogno per scrivere, mi aiuta ad annullarmi, mi aiuta a predispormi all’ascolto di quello che i miei personaggi hanno da dirmi.