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Intervista a Nathalie Bauer

Natalie Bauer
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Incontriamo finalmente Nathalie al Salone del Libro di Torino, dopo un appuntamento saltato: nonostante problemi tecnici al registratore la chiacchierata è andata alla grande, resa molto semplice dall’eccellente conoscenza dell’italiano da parte della Bauer. Nathalie è nata a Parigi nel 1962 dove si è laureata in Storia, ha imparato l’italiano per passione, da autodidatta, ed è diventata la traduttrice francese di autori come Primo Levi, Natalia Ginzburg, Soldati e Arpino. Ha esordito da poco come narratrice con un romanzo sull’amore e l’amicizia durante la Prima guerra mondiale ispirato ai diari e alle lettere del nonno.




Ho letto che il tuo Ragazzi di belle speranze è nato da una serie di appunti, di diari che hai trovato di tuo nonno. Come si è intrecciata la narrazione con la realtà?
Dunque, io ho trovato il diario che mio nonno ha scritto durante la guerra, le lettere che spediva alla sua famiglia, le foto che aveva scattato e ho conservato tutto il sottofondo storico, anzi ho fatto anche ricerche negli archivi francesi perché la base storica fosse veramente esatta. Cioè, se in un tal giorno c’è stato un bombardamento alle 11.00 questo bombardamento è alle 11.00 anche nel romanzo, se c’era cattivo tempo c’è cattivo tempo anche nel romanzo e così via. E questo l’ho fatto non perché sono pignola ma per rispetto per quelli che combatterono questa guerra, mi sembrava doveroso conservare questa memoria e non fare letteratura anche di questi fatti. Su questo sottofondo storico ho inventato una trama, ho tenuto il personaggio di mio nonno perché avevo tutto e ho inventato una storia di amicizia. Quello che risaltava di più da tutto questo materiale, quello che si vedeva di più, era infatti l’amicizia; un’amicizia talmente forte che era fraternità, e grazie a quest’amicizia i soldati hanno potuto andare avanti e hanno potuto vivere quegli anni di guerra. Sai com’è? Come quando guardi un album di fotografie, guardi uno scatto e ti chiedi che cosa facevano prima e che cosa avrebbero fatto dopo, poi crei una storia per legare le foto tra loro. Quando, per esempio, nel diario leggevo che dopo tre-quattro giorno in linea era andato a riposare cercavo di immaginare che cosa avesse potuto fare in quei giorni, ho inventato la storia di amicizia ma ho tenuto i nomi e i cognomi che erano nel diario, quasi tutti, tranne quello di Declercq perché non avevo molte informazioni su quel personaggio e ho inventato il personaggio femminile. Ho trovato la foto di una giovane donna che era stata scattata in una casa dove mio nonno era stato ospitato e questo mi ha dato l’idea, so che era la casa di un chirurgo che ospitava molte persone; io ho svuotato la casa e ho tenuto solo due ospiti, mio nonno e il suo amico, e ho inventato la figlia.


Com’è nato il personaggio femminile?
Volevo che ci fosse un personaggio femminile perché erano le donne ad avere un’apertura sul mondo, gli uomini erano dentro l’azione e non si rendevano conto che con questa guerra tutto il loro mondo stava crollando. Con la Prima Guerra mondiale si entra nel mondo moderno, è la fine dei valori dell’Ottocento e gli uomini non si rendono conto di questa cosa, anzi si aggrappano ai loro valori e cercano di ricucire la loro vita così com’era prima, giocano a tennis quando a 10 Km ci sono i bombardamenti. Mentre il personaggio femminile capisce quanto il mondo stia cambiando perché con la Prima Guerra mondiale si sono aperte molte opportunità per le donne, iniziano a lavorare, ci sono le prime donne medico e le prime corrispondenti di guerra.


Questa storia di amicizia e di amore sarebbe potuta essere concepita e scritta fuori dal contesto di questa specifica guerra?
Penso di sì. In realtà cosa condividono questi uomini? Il terrore, la lontananza, l’assenza dei genitori, la mancanza di comodità, la sporcizia… e in tutto le guerre è un po’ così. Questi uomini che condividono il desiderio di sopravvivere e la paura secondo me sono legati in un modo particolare, l’amicizia tra commilitoni è una cosa che continua a esistere ma la Prima guerra mondiale ha in sé una particolare assurdità… i soldati sono partiti con l’idea di combattere l’ultima delle ultime guerre e poi si sono trovati in una condizione ancora più assurda, potevano marcire nelle trincee per mesi, a pochi metri dal nemico, per essere mandati da un giorno all’altro a morire in una carneficina terribile.


Come è stato scritto il romanzo? Si è scritto tutto così come lo avevi concepito o si è inserito qualcosa strada facendo?
Ho iniziato a scrivere in terza persona e ho scritto così le prime 150 pagine, ma erano bruttissime perché in realtà avevo paura di diventare mio nonno, e non funzionava così. Dunque dopo sette-otto mesi ho preso tutto, ho buttato tutto e ho ricominciato da capo, allora è stato tutto molto più facile. È stato difficile da scrivere nel senso che avevo una specie di quadro, le giornate erano imposte, gli spostamenti erano imposti e io dovevo cercare di riempire i buchi e di scrivere una storia abbastanza lunga da durare tre anni e mezzo ma che reggesse. Ho fatto molte ricerche e avevo molte cose da rispettare, credo che sia stato il libro più difficile che abbia scritto. Adesso ne sto scrivendo uno che mi sembra talmente facile da pensare che dev’essere bruttissimo.


Leggendo il romanzo si ha l’impressione che non sia solo un romanzo ambientato all’inizio del Novecento ma che sia anche scritto con il tono di un romanzo di inizio Novecento. È stata una cosa voluta?
Sì, è stata una cosa voluta nel senso che uno si accorge, mentre scrive, che un libro può essere scritto solo in una certa maniera. Se tu cerchi di deciderlo con la testa e dici “lo scrivo così” poi ti rendi conto che non va. Ci sono molti modi di scrivere un libro ma uno solo è quello giusto per cui a un certo punto devi lasciarti andare e poi sono i personaggi che ti trascinano. Ovviamente ho dovuto tenere conto di tante cose, ho fatto anche una ricerca linguistica su quel periodo. In italiano purtroppo non si può percepire il vocabolario dell’epoca, in Francia lo slang è stato inventato nella Prima Guerra mondiale quando si sono ritrovati insieme ragazzi di tante province diverse che hanno quasi inventato una lingua, per cui ho fatto una ricerca sulle parole che usavano all’epoca, ci sono anche vocabolari dello slang della Prima guerra mondiale, è una cosa fantastica. Ho letto anche molti libri scritti all’epoca e avevo tutte le lettere che mio nonno aveva scritto, per cui non era facile ma era possibile cercare di pensare come loro  e di parlare come loro. Quando scrivi sei come un attore che deve interpretare una parte per cui se scrivi in prima persona un libro ambientato durante la Prima Guerra mondiale non puoi parlare come un giovane di oggi.


Che tipo di accoglienza ha avuto il romanzo in Francia?
Sono stata sorpresa e molto felice, il libro è stato finalista del Premio Femina e ho avuto anche diversi riconoscimenti, ma ho avuto anche molte persone che mi hanno scritto per raccontarmi le loro storie, le storie dei loro nonni. E quando andavo a presentare il libro c’era sempre un signore o una signora che mi raccontava del nonno o del bisnonno quindi ho avuto un legame molto forte con i lettori. Poi c’è da dire che in Francia c’è una memoria molto forte riguardo la Prima guerra mondiale, si vedono ancora i segni nel paesaggio, ci sono ancora dei piccoli cimiteri in mezzo ai campi coltivati. La Francia è stata talmente tanto ferita, ci sono stati così tanti morti che c’è un culto e un dovere della memoria molto forte per quella guerra.

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