
Il romanzo d’esordio di Orsola Severini, un dolente memoir che racconta un episodio doloroso della vita della giovane autrice inserendolo in un flusso di ricordi e riflessioni, porta alla ribalta il grave problema della applicazione “monca” della Legge 194 in Italia, a quasi mezzo secolo dalla sua approvazione. Un tema davvero importante, che non potevo perdere l’occasione di approfondire contattando Orsola via mail. Ecco le sue risposte alle mie domande.
La gestione delle interruzioni volontarie di gravidanza, ancora oggi e nella capitale d’Italia, è qualcosa di veramente scandaloso e vergognoso. Il tuo libro - oltre che una pagina di memoria personale - è di fatto anche una potente denuncia. Qual è la situazione (il grande pubblico non la conosce) e cosa dovrebbe cambiare secondo te?
Nel nostro Paese circa l’80% dei sanitari (ginecologi, anestesisti, infermieri) è obiettore di coscienza. Al di là delle statistiche, io stessa non capivo cosa significassero questi numeri sul piano concreto. È proprio dal mio sgomento, dalla mia rabbia, che parte l’idea di raccontare la mia storia. Nel 2016, con mio marito, decidiamo di avere un terzo figlio, ma l’ecografia della dodicesima settimana rivela una patologia del feto incompatibile con la vita. Seppure con immenso dolore, abbiamo deciso di avvalerci della legge 194 e di interrompere la gravidanza il prima possibile per risparmiare sofferenze inutili al bambino ed evitare complicanze alla mia salute. Ma presto mi sono scontrata contro l’obiezione di coscienza, che è qualcosa di molto subdolo: quando ho detto al medico che mi aveva seguita nelle gravidanze andate bene che volevo interrompere, non mi ha detto “Guarda, io sono eticamente contraria ma puoi rivolgerti a qualcun altro”. Mi ha consigliato di aspettare almeno un mese prima di decidere, poi quando ha capito che ero decisa ad andare avanti è completamente sparita. Come lei, altri sanitari di un importante ospedale romano mi hanno mandata via in malo modo senza darmi nessun tipo di indicazione. Mi sono detta che se è successo a me che provengo da una situazione privilegiata, deve essere ancora più traumatico per donne che vivono in realtà più difficili.
Emerge dal tuo racconto il contrasto forte, quasi feroce, tra la tua parte razionale e quella irrazionale di fronte a un evento così doloroso come l’interruzione di gravidanza...
Sì, ho vissuto un vero senso di sdoppiamento. Da una parte il mio istinto mi portava a proteggere il mio bambino, ma la mia ragione mi spingeva invece a cercare un modo di interrompere la gravidanza il prima possibile, proprio per l’amore che nutrivo nei suoi confronti e dei miei figli che erano già qui. Per me l’aborto terapeutico è stato un vero atto d’amore nei confronti di tutti i miei bambini, a cominciare da quello che non è mai nato. Vorrei che la mia scelta, se non condivisa, sia al meno rispettata, invece non è affatto così. Ho deciso di raccontare la mia storia per questo motivo, quando nel giugno del 2018 ho letto un’intervista al Papa in cui paragonava le donne che hanno ricorso all’aborto terapeutico ai criminali nazisti. Mi sono detta che se sapesse cosa significa veramente compiere quella scelta mi avrebbe chiesto scusa.
Perché i clinici spesso diventano cinici e che impatto ha questo su noi pazienti?
Il reparto della 194 è qualcosa di difficilmente descrivibile, io l’ho paragonato spesso al “sottosopra” di Stranger Things. Una delle conseguenze dell’enorme tasso di obiettori è che i pochi che non obiettano lavorano in condizioni terribili (reparti fatiscenti, in perenne sottorganico). La non obiezione è una vera propria scelta di vita che compromette tutta la carriera. Ricordo che in Italia non esiste un primario di ginecologia che non sia obiettore. Sono come dei resistenti che si ritrovano a fare solo aborti, questi reparti sono delle vere e proprie “catene di montaggio” dell’aborto, le pazienti vengono trattate in modo brusco senza il minimo supporto psicologico. Non hanno il tempo, né i mezzi per occuparsi dell’aspetto umano delle pazienti e credo si siano costruiti una specie di corazza per andare avanti. Ovviamente è molto dura essere trattati così, ma riesco a capirne i motivi e, nonostante tutto, sono loro grata per non avermi voltato le spalle.
In questo libro sei madre, ma anche e soprattutto figlia: pagina dopo pagina tuo padre viene ricordato in tutta la sua complessità e le sue umane contraddizioni. Da dove nasce il bisogno di fare i conti con questa figura così ingombrante?
Il mio libro ha due livelli di lettura: la denuncia sociale e politica di cui abbiamo parlato, e poi un aspetto più introspettivo. In situazioni di grandi crisi emotive come questa, ognuno di noi reagisce in funzione alla propria storia. Io avevo perso mio padre da qualche anno ma non avevo mai elaborato quel lutto. Un padre molto ambivalente perché, da un lato, era un medico molto impegnato e idealista che viveva per i suoi pazienti, ma dall’altra una persona molto fragile che ha finito per essere inghiottito dai propri demoni. Nei giorni che hanno preceduto e seguito l’aborto ho provato un grande senso di solitudine e mi sono resa conto che lui mi mancava terribilmente, che avrebbe saputo accompagnarmi in questo dramma. Per questo la narrazione alterna il presente dell’interruzione di gravidanza con i ricordi del mio rapporto con lui attraverso gli anni. Ma ho anche sentito la sua presenza, introiettato la sua eredità morale e credo che se avessi avuto un padre diverso non avrei mai avuto il coraggio di scrivere questo libro. Mio padre mi ha insegnato a non stare zitta davanti alle ingiustizie.
Che rapporto hai con la Calabria?
Un rapporto di amore e odio come quello che nutrivo nei confronti di mio padre. Lui, nato a Villa San Giovanni nel 1938 in una famiglia modesta, riesce a laurearsi in medicina ed è molto impegnato politicamente, nel PCI. Sognava di cambiare la sua terra ma ben presto si rende conto che quella realtà gli sta troppo stretta e allora emigra nella capitale. Ha sempre vissuto questo strappo in modo ambivalente: da un lato ha avuto a Roma la carriera e gli stimoli intellettuali che non avrebbe potuto avere a casa, ma dall’altra si è sempre sentito in colpa per aver lasciato la Calabria, come una specie di tradimento nei confronti della terra che avrebbe voluto “salvare” da ragazzo. Mi ha comunque trasmesso un amore viscerale per il Sud, torno ogni anno sulla spiaggia dove andavo con lui ogni estate ed è per me essenziale che i figli mantengano questa connessione con la Calabria.
Perché intitolare il tuo libro Il consolo?
Il consolo è una pratica funebre che esiste tuttora nel Sud e in Sardegna: quando c’è un lutto i familiari del defunto si chiudono in casa per tre giorni senza poter cucinare, sono gli amici del paese a consolarli tramite l’offerta di cibo. Ho vissuto quest’esperienza, che ignoravo, quando è morto mio padre e ne parlo nel libro, anche in modo (spero) divertente alleggerendo un po’ il racconto. Ma per me il consolo, nel senso più etimologico, è soprattutto la consolazione che ho provato tramite la scrittura e che spero possa arrivare a chi mi leggerà.