
Il fumettista spagnolo Francisco José Martínez Roca, detto Paco, è senza dubbio alcuno uno dei talenti più scintillanti del fumetto europeo e forse mondiale. Seguiamo da tempo il suo percorso artistico costellato di grandi fumetti e di premi prestigiosi, per questo ci emoziona e incuriosisce la notizia che la sua graphic novel I solchi del destino avrà presto una trasposizione televisiva in una miniserie. Un formato “perfetto, perché in grado di raccontare una storia bellica intensa e densa per contenuti sociali e politici”, come lo definisce lui stesso, che abbiamo recentemente incontrato a Roma per la – quasi contemporanea – presentazione dell’edizione italiana del suo ultimo lavoro. Ma è solo l’ultima tappa di un percorso costruito vignetta dopo vignetta...
Riesci ancora a disegnare ciò che ti piace o in qualche maniera ti senti costretto a fare quello che fai perché ormai è il tuo lavoro?
Prima di tutto credo che quando il tuo hobby diventa il tuo lavoro e vivi di questo, certe cose cambino un poco, inevitabilmente. Cambia il modo con il quale scegli i progetti da realizzare, cambia anche il modo in cui ti dedichi a questi progetti. Ovvero ti tocca disegnare sia se ne hai voglia sia se non ne hai, lo devi fare perché ormai è diventato il tuo lavoro... Ma nonostante questo rimane sempre il più bel lavoro che potessi mai immaginare: creare storie dal niente e far sì che le persone che le leggono le condividano: è la cosa migliore che potessi fare. È anche vero che più cose hai e più in qualche modo tendi a diventare un po’ conservatore. Cominci ad avere un certo successo, a poter vivere di fumetti, poter vivere bene, e ad avere sempre più lettori, e hai paura di perdere tutto questo. Inizi a pensare a qualcosa cui prima non davi importanza. In tal senso diventi conservatore: quando arriva il momento di scegliere un progetto, prendi in considerazione anche ciò che prima non avresti: non perdere il tuo pubblico.
E questo succede anche a te?
Sì, certo.
E come incide sulla tua creatività, quindi sul tuo lavoro?
Condiziona soprattutto il momento in cui devo scegliere un progetto piuttosto che un altro. Mi vengono in mente un sacco di idee, ne ho un cassetto pieno in attesa di essere utilizzate. Non si tratta più di scegliere in base a ciò che preferisco, ma in base a ciò che credo che possa avvicinarmi meglio ai lettori, ammesso che la scelta sia fra cose che più mi piaccia fare e che più mi interessino. Penso se quello che sto facendo non piacesse a nessuno. Diventa un cambiamento decisamente brusco, e alla fine finisco per fare cose non perché semplicemente mi piacciono più di altre, ma pensando al pubblico.
Pensando a tuoi lavori come Rughe, la tua struggente graphic novel sull’Alzheimer, e quelli successivi, mi sembra che perlomeno negli ultimi anni i tuoi soggetti siano molto personali, come in La casa, o addirittura autobiografici, come in Memorie di un uomo in pigiama, mentre altri riguardano il passato storico della Spagna. Una scelta fatta per il pubblico o è perché è quello che ti sei sentito di raccontare?
Credo che la scelta tra un argomento o un altro avvenga nelle due direzioni: da un lato perché sono storie che per un motivo o per un altro mi piacciono, dall'altro nascono dal voler comprendere qualcosa. Nel caso di Rughe la vecchiaia; nel caso de I solchi del destino una certa situazione propria dell'attualità spagnola che, per me, manifesta una serie di contraddizioni e mi porta a considerare il passato. Nel senso che mi chiedo come sia possibile che in un paese democratico come la Spagna i partiti politici non condannino il franchismo e il fascismo. Nel caso de La casa, invece, volevo conoscere me stesso come persona, guardare indietro e vedere fino a che punto i miei genitori, la cultura e questo tipo di cose mi abbiano condizionato. C’è anche la volontà di creare un’industria e un fumetto nostrani. In Spagna, come credo anche in Italia, abbiamo un po’ perso il contatto tra il pubblico e il mondo del fumetto. In Italia avete la fortuna di avere ancora Dylan Dog o Tex che più o meno attraggono un pubblico vario, ma molti autori spagnoli si sono sempre lamentati del fatto che in Spagna non riuscissero a vendere i propri lavori ricevendo invece il consenso del pubblico americano o francese. La colpa potrebbe essere pubblico spagnolo al quale non piacciono i fumetti, ma se ci riflettevi bene quei lavori non erano stati pensati per il pubblico spagnolo, ma per quello nordamericano o francese, appunto. Li fai arrivare in Spagna, ma stai trattando temi che non interessano ai nostri lettori, ai quali non interessa nemmeno quel tipo di estetica, e soprattutto non vi trovano nessun legame se non quello di essere un fumetto. È ovvio che vivendo in un certo Paese, questi autori devono riferirsi a un’iconografia globale, oltre che a qualcosa che funzioni lì dove sono. Uno scrittore di romanzi non fa questo. Un romanziere parla di ciò che sa, parla del suo Paese prima e solo dopo se la storia, i personaggi narrati e il modo di narrarli possano diventare qualcosa di universale. Pensa prima al proprio mercato, a ciò che conosce e che gli interessa. E questo è un modo di pensare molto diverso da quello di molti autori di fumetti che lavorano, per esempio, per il mercato francese. Io ho la fortuna sia di poter vivere del mercato spagnolo sia che le mie storie abbiano una componente umana che fa sì che possano diventare universali.
Ora che hai avuto successo con queste storie così personali capita che la gente pensi di conoscerti o che ti si avvicini come se foste amici. Che effetto ti fa? Ti dà fastidio?
Soprattutto con Memorie di un uomo in pigiama ho raccontato la mia intimità, perciò capita che la gente mi associ a quell’uomo; tuttavia, quell’uomo non sono esattamente io, perché in qualche modo l’ho romanzato, esagerandolo a volte. Però è chiaro che la gente mi vede così, e si fa un’idea di me a partire dai miei disegni e mi tratta di conseguenza. Questo non mi importa, ma a volte mi sorprendo di come, avendo appena conosciuto qualcuno di cui non so nulla (per esempio mentre sto firmando le copie da qualche parte), questi sappia un sacco di cose su di me. Resto spiazzato quando mi fanno domande su qualcosa di molto personale ‒ come su una mia mania particolare ‒ che credo faccia parte della mia intimità non ricordando di averlo invece raccontato. Cioè, ho creato una storia immaginaria portandola però nella realtà, e poi la realtà ha cambiato il mio modo di essere, e tra i miei personaggi e me si va a creare una simbiosi: se la gente ti tratta come se tu fossi uno dei tuoi personaggi, finisci per comportarti come lui, e non sai più dire chi sei realmente e quale delle tue manie è vera o inventata, perché ormai anche queste ultime le hai assimilate come tue.
In questo senso in Memorie di un uomo in pigiama ipotizzi la tua morte, senza però dire quale sarebbero le tue ultime parole...
Credo che agonizzando direi: “Spero di non aver dato fastidio a nessuno” o qualcosa del genere. Quello che mi piacerebbe è che io non avessi dato fastidio a nessuno e nessuno avesse dato fastidio a me, in un perfetto equilibrio con il mondo. Un rispetto reciproco, in modo che nessuno dei due abbia danneggiato l’altro: non ho rotto niente, non mi avete rotto niente. Perfetto così. Queste sarebbero le mie ultime parole.
La scelta di parlare di Alzheimer in Rughe nasce da un’esperienza familiare oppure semplicemente ti sembra mostruosa come sembra a me la terribile maledizione di perdere la memoria?
Io non sapevo molto sulla malattia fino a quando il padre di un buon amico non ha iniziato a soffrirne. Lo conoscevo da molti anni e per me era sempre stato quasi un esempio di quello che io volevo essere alla sua età: trascorreva il tempo libero che gli dava la vecchiaia leggendo e quando mi vedeva mi consigliava sempre dei bellissimi libri. Per questo mi sembrò terribile passare in poco tempo da una situazione come questa al fatto che non era più in grado di indossare da solo una camicia. Così, a partire da questa situazione, ho iniziato a documentarmi sul tema di questa malattia tramite altri amici che avevano avuto un parente con il morbo di Alzheimer e anche direttamente con le visite alle case di cura. La verità è che la malattia dell'Alzheimer è molto difficile non solo per il paziente, ma anche per tutta la famiglia.
Il quartiere “perduto” del tuo Le strade di sabbia è una metafora esistenziale o soltanto una trovata surreale?
A volte, per renderci conto del tipo di vita che conduciamo, dell’assurdità della nostra routine, c’è bisogno di osservare le cose da un altro punto di vista. La fantascienza è stata spesso utilizzata per parlare dell’essere umano. Kafka per esempio, lo faceva utilizzando l’universo fantastico. Le sue storie trattano di cose specifiche della società della sua epoca, ma il surrealismo delle sue storie fa sì che continuino a funzionare anche oggi e che molte situazioni attuali ci ricordano i suoi personaggi de Il castello o de Il processo.
Quanto sono importanti per te i maestri della letteratura latino-americana, che sembri in qualche modo citare spesso, soprattutto in Le strade di sabbia?
Si tratta di un tipo di letteratura che mi piace: molti di loro, come Borges, Cortázar, García Márquez e Onetti hanno una componente fantastica nelle loro storie che amo. Parlano dello spirito umano in modo molto poetico convertendo, a volte, l’assurdo in una normale vita quotidiana.
Qual è il tuo metodo di lavoro? Parti da sketch e disegni e poi ci scrivi intorno una storia oppure prima immagini la storia e poi la illustri?
Sono molto metodico nel processo di lavorazione. Ho un’agendina in cui segno di volta in volta le idee. La maggior parte delle volte da queste idee non prende vita nulla, però alcune cose prendono una nuova forma così che mi permettono di passare in una fase successiva, quella in cui mi documento sul tema che ho scelto. Leggo libri, navigo in Internet, parlo con le persone. Nello stesso tempo, inizio a scrivere la sceneggiatura. Una volta terminato, lo giro ad un amico o all’editor per raccogliere pareri diversi. Poi passo a fare i bozzetti di tutte le pagine del fumetto e ritorno a farlo vedere a qualcuno per vedere se fila tutto liscio, se si capisce ogni passaggio. Dopodiché passo al disegno, all'inchiostrazione e alle pagine da colorare.
Dal punto di vista grafico quali sono gli artisti ai quali fai riferimento, i tuoi modelli? E come scrittore?
Per quanto riguarda la grafica i miei punti di riferimento sono molto differenti; Mazzuchelli, Taniguchi, Dupuy e Berberian, Frank Miller, Kirby, Darwyn Cooke, Giardino, Julliard, HERG, Chaland, Otomo, Moebius... Come scrittori: Alan Moore, Ed Brubeker, Hugo Pratt, Charlie. E dal mondo del cinema o della televisione: Taty, Spielberg, Wes Anderson... Come serie televisive Senfield e per le sceneggiature per il cinema Kaufman.
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