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Intervista a Paola Barbato

Spazia con la stessa padronanza dal fumetto al thriller e si occupa anche di libri pensati per i più piccoli, ma capaci di offrire interessanti spunti di riflessione anche agli adulti. Molto attiva sui social, attraverso i quali racconta momenti importanti della sua quotidianità e del suo lavoro, Paola Barbato si racconta con generosità anche a Mangialibri, che la segue con affetto e attenzione da molti anni, sin dal suo esordio. Riusciamo a raggiungerla a mezzo mail e raccogliamo le sue riflessioni a proposito di sfide narrative, disobbedienza e ambiguità, senza dimenticare Dylan Dog e Vasco Rossi.



Partiamo dal tuo L’ultimo ospite. Il lettore affezionato nota subito una particolarità; contrariamente al passato quando nei romanzi abbondavi di personaggi, in questo troviamo la storia circoscritta a soli due protagonisti: Flavio e Letizia. A cosa si deve questa decisione? Vuoi semplificare e concentrare l’attenzione del lettore?
Diciamo che è stato il primo romanzo in cui ho iniziato a fare un esperimento per sottrazione. Quando si scrive, si tende sempre a ripetere lo stesso modulo narrativo e a spingere il confine ogni volta più in là. Questo rischia di farti diventare un cliché e, soprattutto, di “scriverti addosso”. È una delle cose che più mi preoccupa, quindi ogni volta che affronto un libro cerco una nuova direzione narrativa. Fa paura ma, secondo me, è necessario per “nutrire” la propria scrittura.

Torniamo ai due principali protagonisti del romanzo. La vicenda viene raccontata con gli occhi di Flavio, notaio ligio alle regole e con quelli di Letizia, la sua segretaria, paranoica fino all’inverosimile che vive realtà tutte sue. Vuoi spingere il lettore a scegliere tra razionalità e fantasia?
La tendenza è sempre quella di escludere una delle due eventualità, come se la razionalità e la fantasia non avessero ruoli fondamentali l’una per l’altra. Anche quando si tratta di casi di cronaca, reali, gli investigatori insistono sull’immaginare anche scenari improbabili, perché la vita ne è piena. Ne L’ultimo ospite sia Flavio che Letizia hanno ragione sotto molti aspetti, ma è soltanto mettendo insieme entrambi i punti di vista che si può vedere il quadro completo.

Letizia risulta un personaggio intrigante e al lettore sembra ti stia particolarmente a cuore. Quanto ti riconosci in lei?
Ai tempi di Scripta Manent, quando l’ho creata, Letizia è stata pensata su un modello potenziale di ciò che sarei divenuta io stessa se la mia vita avesse preso direzioni diverse. Non è identica a me, non in tutto, ma il suo atteggiamento ansioso, la capacità di proiettare e il rapporto con la scrittura sono identici ai miei. È in assoluto il personaggio che più di tutti mi rappresenta.

I personaggi dei tuoi libri sono spesso ambigui, chi sembra cattivo è in realtà animato da buone intenzioni, chi sembra il buono è invece cattivissimo. L’impressione è che tu voglia far intraprendere al lettore un percorso etico attraverso la figura del personaggio. Vuoi scatenare nel lettore un’interiore battaglia morale?
La battaglia è già in atto. Passiamo tutta la vita a combattere qualche parte di noi che non ci piace, che non riconosciamo, ma è una guerra persa in partenza. Nessuno di noi è bianco o nero, ma di varie gradazioni di grigio. In ciascuno è presente un potenziale eroe o un potenziale mostro. Sono le sollecitazioni dell’esistenza a far emergere l’uno o l’altro, oppure restano dormienti in noi per sempre, ma non è questo il punto: negare che esistano entrambi è molto sbagliato e controproducente. Solo conoscendo la propria parte oscura è possibile tenerla a bada, qualora dovesse emergere. E lo stesso vale per quegli slanci di cui non ci vogliamo credere capaci.

Come nascono i tuoi personaggi, cosa fa accendere la scintilla della creazione?
Rubo, come rubano tutti. Ogni personaggio è mosso da una spinta primordiale, che può essere l’autoconservazione, la rivalsa, l’ambizione, il quieto vivere, la paura, l’esaltazione e infinite altre. Identificata quella vado in cerca di sfumature, viste probabilmente in gente che conosco o che ho incrociato, oppure di cui ho visto o letto. Certe suggestioni si catturano e poi restano lì a sedimentare per molto tempo, fino a quando non ci vengono utili. È un meccanismo automatico, in gran parte, non c’è molto di razionale in tutto ciò.

In Mani nude, nella trilogia Zoo, Vengo a prenderti, Io so chi sei e anche in Non ti faccio niente il comune denominatore sembra essere la punizione, la costrizione come mezzo per piegare la volontà umana con una funzione educatrice. È un messaggio forte. Ce lo spieghi?
La punizione è stata la base del sistema educativo per molto tempo, sia in ambiente domestico che, cosa più grave, a scuola. Le bacchettate sulle dita date dai maestri, l’umiliazione di finire dietro alla lavagna, i compiti aggiuntivi. Da sempre il sistema educativo viene affiancato da un sistema punitivo, anche se oggi i nuovi modelli pedagogici mettono parzialmente in salvo le ultime generazioni. Io mi sono limitata a riproporre questo modello in maniera più esplicita e applicato all’età adulta. È un principio sbagliato, eppure ancora oggi i meccanismi sociali e giudiziari si basano più sulla punizione che sulla riabilitazione, che spesso non viene compresa nel suo reale significato.

A giugno 2021 è uscito in edicola Sally, un albo ispirato alla canzone di Vasco Rossi scritto da te con i disegni di Corrado Roi. Dylan Dog, tuo grande amore, ne è il protagonista. Come nasce l’idea di un connubio tra Vasco e Dylan?
La proposta è partita dal curatore Roberto Recchioni, che ha scelto tre sceneggiatrici per raccontare tre donne di Vasco. Io, Barbara Baraldi e Gabriella Contu abbiamo scelto quali raccontare, trovando molto facilmente un punto di contatto tra l’outsider Dylan Dog e il ribelle Vasco.

Perché Sally tra le tante canzoni di Vasco? E quale tua idea o emozione provata nell’ascoltarla hai voluto trasmettere nel fumetto?
Quando mi è stato chiesto di scegliere mi sono avventata su Sally immediatamente, perché è senza dubbio una delle figure con cui mi sono maggiormente identificata. La dolenza, la disillusione, l’apparente resa e poi la rinascita. Volevo che come la canzone anche l’albo avesse tre tempi ben precisi e tre ritmi definiti, che seguisse il testo ma lo trasformasse anche in una metafora. La delusione per un amore finito diventa il rifiuto della vita intera, la perdita graduale di ogni sentimento. E i sentimenti stessi vengono mostrati per quel che sono: mostri dai denti aguzzi pronti a sbranarti.

Nel 2009 sei stata sceneggiatrice della miniserie Nel nome del male, diretta da Alex Infascelli e trasmessa su Sky. Sono passati diversi anni, ci sono nuovi progetti per la televisione?
Mi piacerebbe moltissimo, corteggio la televisione da anni ma non sono stata ricambiata. Resto fiduciosa!

Su un social hai un gruppo, “Spoiler Place”, in cui ti confronti con i fan sul romanzo Vengo a prenderti e la “poli-bilogia”, come la definisci tu, in generale. Che rapporto hai con il lettore?
Ottimo, il lettore è l’altra metà della mela nella narrativa, senza i lettori il nostro mestiere non esisterebbe. Mi piace moltissimo quando mi restituiscono un libro diverso da quello che ho scritto, quando danno la loro interpretazione di personaggi e vicende, quando lo vivono e lo trasformano attraverso la loro sensibilità. È un feedback prezioso che prima dei social non era possibile avere in maniera così immediata e completa.

I nomi e i cognomi dei protagonisti dei tuoi romanzi sono sempre particolari e poco comuni. Penso, per esempio, a Letizia Migliavacca de L’ultimo ospite. Anche il protagonista del tuo nuovo romanzo La cattiva strada si chiama Giosciua, scritto proprio così. Sono nomi casuali o c'è una ricerca dietro le tue scelte?
C'è sempre dietro un ragionamento e un perché, sia quando scelgo un nome e un cognome banali (come Antonio Lavezzi o Davide Bergamaschi) sia quando pesco nomi bizzarri. Se un personaggio è radicato in un territorio ben preciso allora mi muovo tra i cognomi tipici della zona, e, a seconda del tipo di empatia che voglio suscitare nel lettore, lo scelgo rassicurante o spiazzante. Il nome invece deve “suonare” con la personalità del personaggio. Giosciua Gambelli, di cognome milanese, mette insieme un elemento tradizionale con la bizzarria del nome scritto come si pronuncia, mettendo insieme radici e ignoranza. Tutto serve a evocare.

La disobbedienza è uno dei temi affrontati nel tuo nuovo romanzo. Nella tua esperienza personale, si tratta di un peccato veniale o di una grave negligenza? Nel romanzo, in particolare, quanto sono gravi le conseguenze del suo gesto di disobbedienza?
La disobbedienza ha a che fare con l'autodeterminazione e l'istinto di sopravvivenza. Si ubbidisce fino a quando l'obbedienza non ci danneggia, ma ribellarsi non sempre è sintomo di libertà. Bisogna avere l'intelligenza di discernere quando la regola è dalla nostra parte o contro di noi. Il protagonista del mio libro questa domanda non se l'è mai posta sino alla lunga notte raccontata. È un uomo che segue la marea per quieto vivere, sinché la quiete non scompare e il vivere non inizia a dipendere proprio dall'opporsi alla marea.

I LIBRI DI PAOLA BARBATO