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Intervista a Paolo Di Paolo

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Paolo Di Paolo è del 1983. Intorno ai quindici anni, combattutto tra la passione dei fumetti e quella del giornalismo, intratteneva una corrispondenza con Montanelli. A diciotto anni era su un palcoscenico con Franca Valeri, a venti esordiva con una antologia di racconti poi finalista al Premio Calvino. Poche persone hanno la fortuna di capire fin da subito quali siano i propri talenti e dedicarsi a essi con costanza e passione, senza perdere tempo con i tentativi e le velleitarie sperimentazioni tipiche della gioventù. A scorrere la biografia di Paolo (breve anagraficamente ma ricca di traguardi importanti) si ha subito l’impressione che l’autore romano fin da giovanissimo sapeva che avrebbe dedicato la sua vita alla scrittura. Di Paolo si presenta oggi come uno degli autori più “attrezzati” della scena letteraria italiana, non a caso la sua attività di narratore è alternata a quella di giornalista, saggista e critico letterario. La sensibilità dello scrittore, insomma, si appoggia su una potente e vasta conoscenza della letteratura e del mondo editoriale italiano.



Credi che il tuo Raccontami la notte in cui sono nato possa essere considerato un romanzo-spia di un malessere generazionale? Di quel senso di insoddisfazione e inadeguatezza che spinge a trovare un esilio dalla vita reale?
Di cosa siano “spia” i romanzi, lo dicono i lettori. E in effetti qualcuno ha letto questo libro come un libro anche generazionale. Un po’ perché ci sono una serie di ricordi comuni alla generazione nata all’inizio degli anni Ottanta; un po’ perché sembra emergere dalla storia del personaggio Lucien qualcosa che somiglia a un precariato esistenziale prima ancora che lavorativo o affettivo. Lo dicono i sondaggi e, di riflesso, i libri: oltre il 60 per cento degli italiani ha eliminato dal proprio vocabolario la parola “futuro”. Anche Lucien fa molta fatica a pronunciarla. Ma vorrebbe.

Sei stato scoperto da Dacia Maraini, che ancora ti sostiene e ti supporta. E a dispetto della tua giovane età, sei un esponente molto attivo nel mondo dei letterati italiani. È la letteratura o la vita a fornirti i maggiori stimoli?
Sempre la vita, naturalmente. Anche quella che sta dentro i libri. Non mi interessano in quanto tali, ma come depositi di realtà. Se qualcosa, nelle pagine che scrivo, si riaggancia a libri altrui non è per smania di citazione, ma perché lì ho trovato espresse perfettamente piccole verità dell’esistenza (e può trattarsi di una giornata di pioggia, di una calvizie, di un innamoramento). Poi, c’è il problema del vissuto. Non riesco a pensare un libro che, più o meno camuffandola, reinventandola, non metta in gioco un’esperienza personale delle cose e dei sentimenti.

Possiedi “l’ipersensibilità genetica del letterato”. Consideri questo più un limite o un vantaggio?
A volte l’ho sentita, questa particolare sensibilità, come un limite: quando cercavo leggerezza, quando tentavo di restare in superificie. Però non si può pensare la scrittura - o almeno la scrittura che interessa a me - se non come il riflesso di una ipersensibilità che si esercita sui dettagli che molti trascurano. Con le parole giuste, spiega tutto questo Truman Capote nella premessa al suo libro (bellissimo) Musica per camaleonti.

Oltre a scrivere romanzi, lavori anche per il teatro e la televisione. Qual è la dimensione artistica in cui ti riconosci maggiormente?
Nella scrittura narrativa sento di poter raggiungere il più alto grado di libertà espressiva. Non è mai una libertà totale, perché siamo, sono comunque condizionato da un’infinità di pudori, pregiudizi, ignoranze, tabù, di cui neanche sono pienamente consapevole. Però non riuscirei, direi pure per ragioni caratteriali (di impazienza, di curiosità), a fare una cosa sola. Le altre possibilità del lavoro "intellettuale" - quindi la critica militante, il racconto giornalistico, il lavoro editoriale, e anche l’organizzazione culturale, ecc. - diventano, per me, mezzi di sopravvivenza non solo in termini economici.

Se è vero che ogni libro è un viaggio, dove ti porterà il tuo prossimo progetto? Ne hai già uno in cantiere?
Ho molto lavorato a un’antologia degli scritti di Indro Montanelli che uscirà a breve da Rizzoli con il titolo La mia eredità sono io. Mi sto occupando di uno strano reportage narrativo sull’Italia dei tanti che scrivono e dei pochi che leggono; e ogni tanto mi ritaglio lo spazio per coltivare l’ossessione da cui verrà fuori il prossimo romanzo.

Quali sono gli scrittori italiani e stranieri ai quali guardi con maggiore attenzione?
Per ragioni anche giornalistiche, leggo moltissima narrativa italiana contemporanea. Di volta in volta, di libro in libro, trovo affinità, punti di contatto, inquietudini comuni. Mi interessano molto le scritture ibride, che tentano percorsi tra saggio e romanzo, magari partendo da esperienze di vita vissuta. Anche all’estero. Dal fresco Premio Nobel Le Clézio (penso al bellissimo L’africano) a Orhan Pamuk, da Peter Handke a Uwe Timm, autore di uno dei libri che più mi hanno emozionato, commosso negli ultimi anni, L’amico e lo straniero.

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